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Referendum lavoro, perché votare Sì al secondo quesito sul licenziamento nelle piccole imprese


di Alberto Piccinini*

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Si evidenziano le parole che verrebbero eliminate con l’abrogazione parziale dell’ art. 8 legge 15 luglio 1966 n. 604: Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

Com’è noto in Italia la maggior parte delle imprese è costituita da microimprese: quelle con meno di 16 dipendenti, secondo i dati Inps del 2023, sono il 92,51% e forniscono il 32,41% del totale dei posti di lavoro. Si tratta di lavoratori e lavoratrici non organizzati/e sindacalmente, raramente coperti dalla contrattazione collettiva (mai da quella aziendale), le cui sorti sono affidate alla “benevolenza” del datore di lavoro, oltre che alla legge. In particolare, per loro, la tutela dai licenziamenti illegittimi è sempre stata differenziata da quella per i/le dipendenti delle imprese (anzi, dal 1990, dei datori di lavoro in genere, anche non imprenditori) nella cui sede vi siano più di 15 addetti (o almeno 60 a livello nazionale); mentre per questi ultimi è prevista, di regola, la reintegrazione nel posto di lavoro (art. 18 dello Statuto dei lavoratori), ai primi l’art. 8 della legge n. 604 del 1966 riserva una sanzione economica da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 6 (non prendiamo in esame i due diversi tetti massimi legati ad anzianità superiore ai 10 o ai 20 anni, ipotesi sempre più rare e che nella pratica hanno trovato scarsa applicazione, anche perché sottoposte all’ulteriore condizione della dipendenza da un datore di lavoro con più di 15 addetti/e – e meno di 60 – a livello nazionale ma meno di 16 a livello di unità produttiva).

Entrambe queste sanzioni dovrebbero, comunque, avere un effetto deterrente, dovrebbero cioè disincentivare il datore ad un uso improprio del potere di licenziare.

Da sempre, quindi, siamo abituati a considerare quei lavoratori e quelle lavoratrici “di serie B” dal punto di vista della protezione, giustificando il diverso trattamento da un lato con le particolari problematiche personali che in un piccolo ambiente di lavoro si porrebbero in ipotesi di reintegra forzata (problematiche condivise anche, dobbiamo dirlo, dagli stessi lavoratori, che spesso non si mostrano intenzionati a tornare) e dall’altro perché il non reintegro, unitamente al modesto indennizzo, sarebbe coerente con la presunta minore capacità economica delle realtà con minori dimensioni occupazionali.

La fondatezza della prima motivazione (compatibilità ambientale) è stata più volte confermata dalla Corte costituzionale, ma può davvero, oggi, sostenersi che la seconda sia esistente?

Per dimostrare che non lo è basteranno i tre esempi richiamati da Riccardo Staglianò nel suo saggio Gigacapitalisti (nell’emblematico capitolo Mai così tanta ricchezza per così pochi lavoratori) : 1) quando YouTube fu comperata da Google per 1,65 miliardi di dollari, la sua forza lavoro consisteva di 65 persone, per la maggior parte ingegneri; 2) quando nel 2014 Facebook decise di acquistare WhatsApp per 19 miliardi di dollari i dipendenti erano 55; 3) ma appena due anni prima, nell’aprile del 2012, sempre Facebook aveva acquistato Instagram, che aveva 13 dipendenti, al prezzo di un miliardo di dollari.

Si può quindi comprendere come la stessa Corte costituzionale abbia recentemente dubitato che il requisito occupazionale numerico possa essere idoneo ad individuare le reali dimensioni di un’impresa, pronunciandosi sulla questione di costituzionalità della norma del Jobs Act (art. 9 del d.lgs. n. 23/2015) che, analogamente all’art. 8 della legge n. 604/1966 – di cui, con il secondo quesito referendario, si chiede la parziale abrogazione – prevede un tetto massimo di indennizzo di sei mensilità.

Con la sentenza n. 183 del 1922 la Corte, pur dichiarando inammissibile la questione, ha dato atto che “il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…” Anzi, “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli”. Per effetto delle importanti precisazioni della Corte costituzionale il giudice dovrebbe, dunque, secondo il testo dello stesso art. 8, “fissare” la misura dell’indennizzo considerando, oltre che il numero dei dipendenti, anche le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il comportamento e le condizioni delle parti.

Nella sua sentenza la Corte sottolinea però che il piccolo “scarto” tra il minimo (3, nel caso dell’art. 9) e il massimo (6) di indennizzo non consente comunque una adeguata valutazione del caso concreto “nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza”, sollecitando il legislatore a intervenire per rimediare. A distanza di tre anni nulla però è stato fatto.

Si presenta così per il cittadino, votando sì al referendum, la possibilità di rimediare all’inerzia del legislatore affermando un principio di giustizia: l’eliminazione del tetto massimo di indennizzo consentirebbe al giudice di risarcire il danno da licenziamento considerando concretamente, caso per caso, anche le reali dimensioni dell’attività economica, senza un (ristretto) limite predeterminato per legge. Si produrrà così un vero effetto deterrente nei confronti di chi ritiene di poter irrogare un licenziamento con motivazione pretestuosa pensando di “cavarsela con poco”.

Anche questo referendum, quindi, va al di là dell’interesse diretto che potranno avere i pochi milioni di dipendenti delle cosiddette “piccole imprese”: consente a tutti noi (persino quelli, come il sottoscritto, che è datore di lavoro di meno di 16 impiegate) di affermare valori di ragionevolezza ed equità che nel loro insieme i cinque referendum intendono rimarcare.

*Avvocato giuslavorista “di lungo corso”, ha pubblicato diversi articoli e libri in materia di licenziamenti. È presidente dell’associazione Comma2 Lavoro è dignità



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