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100 giorni di Trump – il punto in cinque grafici


CRESCITA

Il mondo rallenta

Il 2 aprile, giorno del “Liberation Day”, Donald Trump ha svelato nuovi dazi verso il resto del mondo, sostanzialmente ribaltando la posizione degli Stati Uniti: da paladini del libero commercio a uno dei paesi con il più elevato livello di dazi al mondo (anche includendo la “tregua” di 90 giorni per tutti i paesi tranne la Cina, che scadrà a metà luglio).

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Saldo e stralcio

 

La barriera innalzata dal presidente intorno al mercato statunitense si fonda principalmente sull’idea che un saldo negativo della bilancia commerciale sia frutto di pratiche commerciali scorrette e che l’unico modo per rimediare sia imporre pesanti dazi sulle importazioni. Una convinzione infondata sul piano economico, ma che la Casa Bianca continua ad abbracciare pienamente.
Come ricordato dal Fondo Monetario Internazionale nel suo Outlook di aprile, l’introduzione di misure restrittive dei commerci da parte del maggior importatore mondiale non ha solo fatto aumentare i costi di accesso al suo mercato, ma porta anche con sé un aumento dell’incertezza che si traduce in un rallentamento degli scambi internazionali.

L’effetto finale, soprattutto se la guerra commerciale dovesse durare a lungo, sarà un rallentamento generalizzato della crescita mondiale (-0,8%) dovuto sia alla necessità di adattare la produzione ai nuovi prezzi (e di conseguenza alla nuova domanda), sia all’assestamento necessario per reindirizzare le merci che potrebbero non avere più come destinazione gli Stati Uniti.

Fare la guerra (commerciale) al mondo potrebbe tuttavia costare caro innanzitutto proprio agli americani. Secondo le stime del Kiel Institute infatti a pagare il prezzo più alto, in termini di minore crescita, sarebbero proprio gli Stati Uniti (-1,7%), seguiti dalla Cina (-0,6%) e in misura più marginale dall’UE (-0,2%).

CINA

Muro contro muro

Proprio la Cina è rimasta la grande esclusa dalla tregua di 90 giorni concessa dal presidente americano, cha ha riportato i dazi nei confronti di tutto il resto del mondo al 10%. Invece di attendere (una strategia adottata per esempio dall’UE), Pechino ha deciso di prendere immediate contromisure contro il 34% di dazi imposto dalla Casa Bianca nel “Liberation Day”, rispondendo con un contro-dazio di eguale entità e scatenando le ire di Trump. Il conseguente botta e risposta ha portato i dazi reciproci sopra quota 100%.

Per quanto generalizzati, i nuovi dazi americani non sono omnicomprensivi e in particolare escludono 3 settori: quello automobilistico (già sottoposto ad un dazio specifico del 25%), quello farmaceutico e quello dei semiconduttori. A queste esenzioni se ne sono aggiunte poi alcune specifiche sul tech (smartphone, pc, ecc.).

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Attenzione, però: il colpo accusato dalla Cina potrebbe presto contagiare il resto del mondo. Se già prima di Trump il tema dell’overcapacity cinese preoccupava l’occidente, ora che gli Stati Uniti hanno alzato una muraglia di dazi l’UE diventerà il mercato preferenziale per i prodotti cinesi che non riescono più a penetrare il mercato americano.

SCAMBI INTERNAZIONALI

Muro contro muro

L’incertezza generata dai dazi non ha solo conseguenze finanziarie (i cali della Borsa americana, oggi intorno al -15% rispetto a inizio mandato), e prima ancora che sull’economia reale sta rimettendo in discussione lo stesso ruolo dell’economia statunitense come “àncora” e “porto sicuro” del mondo.

La naturale conseguenza di un’imposizione di dazi alle importazioni, da manuale di testo macroeconomico, sarebbe quella di un apprezzamento della valuta del paese che impone i dazi (perché riducendo le importazioni e attirando investimenti in produzione all’interno del paese, riduce la domanda di valuta estera mentre aumenta la domanda di valuta nazionale).

Diversamente dalle attese, invece, dall’entrata in carica di Trump il dollaro si è svalutato di oltre il 5% rispetto a un paniere di monete mondiali. Segnale che questo forte periodo di incertezza nella postura economica americana, insieme alla possibilità che proprio gli Stati Uniti siano l’economia maggiormente colpita dai dazi imposti dalla Casa Bianca, stanno avendo la meglio rispetto alle attese di rafforzamento valutario nel lungo periodo. É un cattivo segnale per produttori ed esportatori europei, che non soffrono solo per i dazi ma anche per la svalutazione del dollaro sull’euro (e, automaticamente, anche di quella del renminbi cinese sull’euro), con la conseguente perdita di competitività sia sul mercato domestico che su quello internazionale.

LOGISTICA

L’avanzata cinese

Oltre alla guerra commerciale, la Casa Bianca ha deciso di colpire la Cina anche sul traffico marittimo. Da ottobre, infatti, gli Stati Uniti imporranno una tassa di 50 dollari alla tonnellata (che crescerà gradualmente a 140 dollari entro il 2028) a tutte le navi costruite in Cina e possedute da compagnie cinesi che attracchino ai porti statunitensi.

La misura punta a riattivare la cantieristica navale statunitense, che non è mai stata dominante e che nei decenni ha perso sempre più terreno, tanto che oggi i cantieri navali americani producono 5 navi l’anno, contro le 1.700 dei cantieri navali cinesi. Le misure hanno tuttavia incontrato la fortissima protesta dell’industria marittima globale, compresi gli operatori portuali e navali interni.

Anche per questo motivo, rispetto alle aspettative della vigilia le misure sono nettamente affievolite. Innanzitutto, se la nave è costruita in Cina ma posseduta da compagnie non cinesi, la tassa scende a 18 dollari la tonnellata (e fino a 33 dollari entro il 2028), uno “sconto” del 64% oggi e del 76% tra tre anni. In secondo luogo, tutte le tariffe saranno applicate non più di 5 volte l’anno per nave, costituendo di fatto un tetto massimo non superabile.

Inoltre, dalle misure è stato esentato il naviglio che naviga da un porto americano all’altro (dunque queste tasse non saranno più cumulabili), così come le navi che operano sui Grandi Laghi o nei Caraibi. Ulteriore quasi-esenzione anche per le metaniere di gas naturale liquefatto (GNL), che hanno obiettivi di “nazionalizzare” le navi sono nel lunghissimo periodo (solo il 4% dovrà essere di costruzione americana entro il 2035).

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Ciò detto, la natura sistematica di questa misura, il consenso trasversale che incontra nella classe politica statunitense (anche l’amministrazione Biden era favorevole al tentativo di riportare in auge la cantieristica navale americana), e l’aumento graduale nel tempo delle tariffe restano fattori di estrema attenzione, e che potrebbero portare a una significativa riconfigurazione del traffico marittimo da e per gli Stati Uniti nel corso dei prossimi anni.

CHOKEPOINT

Il controllo di Panama

Per l’amministrazione statunitense la lotta al dominio marittimo cinese passa necessariamente per il Canale di Panama. Il Canale, in questo momento, svolge una duplice funzione per gli Stati Uniti: come per tutti gli altri operatori rappresenta il collegamento più breve per passare da un oceano all’altro, ma in particolare per gli States è anche la via preferenziale per spostare le merci tra Costa Occidentale e Costa Orientale. In più, proprio ora che il focus strategico statunitense si sta spostando dall’Atlantico al Pacifico, Panama rappresenta anche un asset difensivo per riallocare liberamente la potenza navale statunitense. Per questi motivi la presenza cinese viene percepita come un rischio dalla Casa Bianca, non tanto per un difficile (pressoché impossibile) blocco del transito delle navi da guerra e commerciali americane ma per le eventuali azioni di spionaggio.

In mezzo a questo scontro per il controllo delle infrastrutture marittime è finita la compagnia con base a Hong Kong Hutchison. L’operatore in questo momento si trova schiacciato tra gli Stati Uniti da una parte spingono l’operatore a vendere, e la Cina dall’altro, che ha già fatto pressioni nella direzione opposta. Negli ultimi mesi, però, ha preso sempre più corpo una trattativa che vede come potenziale acquirente un consorzio guidato da BlackRock e MSC. La transazione, dal valore di circa 23 miliardi, ha una particolare struttura che ricalca gli interessi strategici della Casa Bianca. Infatti, sembra che i due partner del consorzio si dividerebbero la proprietà dei terminali controllati da Hutchison lasciando la quota di maggioranza (51%) a MSC per i 41 porti sparsi su 5 continenti, mentre BlackRock dovrebbe mantenere la maggioranza nei due porti panamensi.

La compagnia di Aponte diventerebbe così non solo la più grande compagnia di trasporto marittimo ma anche il principale operatore portuale globale.

La trattativa ovviamente è solo all’inizio, Hutchison nel frattempo è anche alle prese con alcune dispute legali proprio per la gestione dei porti sul Canale di Panama, ma si preannuncia piuttosto lunga (da 6 mesi a un anno), in quello che sarà un passaggio di proprietà con forti implicazioni geopolitiche che potrebbe rimodellare le posizioni strategiche di Pechino e Washington.



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