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Cooperazione e turismo: c’è un filo che unisce
il territorio  | Together che cambia


L’allevamento dei bachi da seta nelle case contadine, il lavoro nelle filande e negli stabilimenti bacologici: il territorio di Vittorio Veneto (TV) era, nei secoli scorsi, il faro imprenditoriale del filo da seta in Italia. Perciò non sorprende che la cooperativa sociale Terra Fertile gestisca, fra le altre cose, il suggestivo Museo del Baco da Seta. Dopo aver visitato le sue sale, incontriamo il presidente Massimo Ciacchi e la vicepresidente Francesca Garbelotto. 

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«Terra Fertile è una cooperativa sociale a scopo plurimo, nata nel ’95 per dare sostegno alle persone con disabilità», racconta Massimo. «All’attività dei centri diurni si è aggiunto presto un nuovo ramo d’impresa: l’agricoltura sociale. Come motore economico del progetto abbiamo aperto una piccola bottega bio con le nostre produzioni e altre del territorio, prediligendo la filiera corta. L’obiettivo è sempre stato quello di attirare le persone attraverso la qualità senza far leva sulle iniziative sociali. Sensibilità e sostegno alle nostre iniziative sono inferiori a quanto si pensi, per questo puntiamo tutto sulla genuinità dei prodotti e dei metodi di coltivazione». 

Francesca Garbelotto aggiunge che «lanciarci in attività extra-sociali è stato un cambiamento di rotta importante. L’altra opzione era agganciarci a un consorzio oppure sperare di vincere dei piccoli appalti, che in genere portano briciole e difficoltà a una piccola realtà come la nostra. Perciò abbiamo convocato l’assemblea dei soci e deciso di puntare sulla valorizzazione del nostro territorio. Il nostro spirito è essere un’impresa sociale di comunità, sulle idee di Carlo Borzaga», economista fra i padri della normativa sulla cooperazione sociale.

Come avete inserito nel vostro progetto il Museo del Baco da Seta?


Massimo: La nostra sede si trova in un’ex filanda ristrutturata a fine anni settanta per diventare un incubatore di attività artigianali. Nel 2001 ci è stata assegnata anche per la gestione degli spazi. Il Museo del Baco di Seta è nato quando noi eravamo già qui, perciò è stato naturale affidarcelo nel 2010. Trovandosi fuori dai percorsi turistici e dal centro cittadino, abbiamo organizzato molti eventi nel Museo con l’obiettivo di diventare un catalizzatore di interessi: cene a tema sulla storia locale con prodotti delle nostre filiere, conferenze sull’alimentazione naturale, concerti di jazz, eventi aziendali. 

Francesca: Il Museo del Baco da Seta è unico nel suo genere ed è concepito in modo innovativo. Responsabile scientifica dell’allestimento è l’antropologa Elisa Bellato, che ha mappato di persona le vecchie filande e raccolto gli oggetti esposti. Poi ha cercato gli ex responsabili di produzione e le filandiere e ha creato le interviste audio-video presenti nel Museo. Inoltre ha inserito esperienze sensoriali, come il riconoscimento tattile della seta rispetto al tessuto sintetico. Il lavoro di ricerca antropologico è tuttora in corso. Spesso organizziamo conferenze partecipate per condividere le testimonianze di persone che concretamente hanno vissuto l’esperienza della filanda.

Qual è stato il riscontro di queste iniziative?

Massimo: Gli eventi hanno avuto da subito un grande successo in termini di presenze. Alcuni divulgatori – uno su tutti Toni Soligon – portavano fino a duecento persone. Nel 2015 abbiamo assunto uno chef per la nostra cucina e iniziato a proporre delle cene; per due anni consecutivi abbiamo organizzato Terra Madre day, una tre giorni con Carlo Petrini di Slow Food.

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Poi abbiamo fatto catering per il Comune, anche per quantitativi ingenti: ad esempio la manifestazione ciclistica Monaco-Venezia, che ha portato 500 persone, o il chiosco per il raduno triveneto degli alpini, con diverse migliaia di partecipanti in occasione del centenario. Abbiamo organizzato oltre cinquanta eventi l’anno nell’arco di diversi anni per promuovere il Museo, il negozio biologico, l’officina di cosmesi naturale, la tutela del territorio e la storia locale.
La pandemia ci ha costretto a interrompere queste attività. 

Su quali progetti vi state concentrando adesso? 

Francesca: La nostra sfida di oggi è promuovere Terra Fertile come impresa sociale di comunità, che coniughi capacità imprenditoriale e solidarietà. È un’impresa la cui mission è lavorare in rete con gli Enti locali – pubblici, profit e non profit – per concorrere allo sviluppo locale e alla costruzione di un welfare di comunità. Lo slogan di riferimento è: “Investire per restituire”.

Torniamo sul tema turismo. Oltre al museo avete mai pensato ad altre iniziative? Parlavamo prima della ciclabile Monaco-Venezia.


Massimo: Io sono appassionato di bici e in questo senso il nostro territorio è una meraviglia! Puoi scegliere la pianura, la salita, il bosco, itinerari suggestivi e poco frequentati. Ma non esiste una piantina dei percorsi ciclistici. Qui non c’è un progetto turistico perché non c’è vocazione. Il problema principale di questi territori – Prealpi Trevigiane e Cadore – è la scarsa vocazione turistica: non siamo per niente accoglienti. Servirebbe un progetto per tutta la Pedemontana. Abbiamo un buon clima, paesaggi e camminate, un’ottima cucina, ma non ci sono servizi: nessun tracciato di sentiero, nessun ostello, pochissima ristorazione.

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Bisogna favorire il cicloturismo, perché le richieste stanno crescendo a livello esponenziale. Servono b&b con una dotazione minima di ciclo officina e ricariche per e-bike – che qui però non esistono, quindi il target che le usa è tagliato fuori. Serve potenziare gli itinerari enogastronomici, ma soprattutto promuovere la cultura del turismo slow. Nessuno pensa a un progetto europeo per le Prealpi. Queste montagne sono meravigliose, hanno il massimo della biodiversità perché sono l’incrocio fra la flora montana e quella di pianura. Serve un turismo esperienziale che leghi strutture ricettive e ristorative alle attività e alle guide turistiche. 

Francesca: È fondamentale fare rete. Noi potremmo gestire una ciclo officina sul percorso ciclabile lungo il fiume di Vittorio Veneto, potremmo aprire un chiosco e tagliare l’erba, ma se sistemiamo solo questa tratta e intorno non c’è altro, nessuno verrà. A me piacerebbe agganciare il turismo nordico, che è sensibile al turismo slow esperienziale, all’enogastronomia e al cicloturismo.

Avremmo una voce importante anche in tema cammini: da qui passa il sentiero europeo che parte dalla Spagna e arriva in Ungheria. Ci sono i cartelli, ma non riesci a seguirlo, al massimo puoi fare una foto. C’è il nuovo cammino Unesco delle colline del prosecco. Bisognerebbe poi incentivare i trasporti. Il treno per il trasporto bici da qui a Calalzo [nel Cadore, ndr] è stato inaugurato da soli tre anni e fa una tratta al giorno, è troppo poco. 

La nostra sede si trova in un’ex filanda ristrutturata a fine anni settanta per diventare un incubatore di attività artigianali

Come può la cooperazione promuovere questi progetti?


Massimo: Non possiamo più fare solo sindacato, di cui abbiamo comunque un grande bisogno. Servono progettualità concrete, non autoreferenziali o pietistiche. Purtroppo – va fatta autocritica – il tema del pietismo è ancora troppo rilevante in molti progetti delle cooperative sociali. 

Francesca: Altro tema importante è imparare a fare squadra con i diversi enti del territorio: imprese, pubblica amministrazione, terzo settore. Non è sempre facile. Richiede apertura e voglia di mettersi in gioco.

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Sul fare rete nessun dubbio, ma la cooperazione si presta a fare business?


Massimo: Ci sono degli aspetti un po’ difficili. La democraticità rende ogni decisione impegnativa e lenta, perché si è in tanti a decidere. D’altro canto la cooperativa si presta a portare avanti più progettualità, con un’unica visione, grazie alla poliedricità garantita dal numero dei soci. Questa è la grande potenzialità della cooperazione sociale che ancora non viene colta.

Puoi fare impresa sociale di comunità agganciandoti allo sviluppo locale, in un sistema che ti sostiene. Qualsiasi persona che intende intraprendere un’attività è più agevolata in forma cooperativa, rispetto ad un progetto solitario. La cosa migliore che ho imparato in cooperativa è come si gestisce un’azienda a 360 gradi in un sistema bossless che è l’opposto di quello che abbiamo visto in Veneto finora.



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