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“Dismette la chimica senza un piano industriale”


Da 25 anni Eni ha smesso di investire nel settore della chimica di base e ora, di fronte alle esigenze della transizione ecologica, il comparto Versalis (la società del cane a sei zampe dedicata alla chimica) chiude perché “troppo costoso”. La società afferma di riconvertire con un piano pensato per “la chimica sostenibile”. Ma la CGIL smentisce questa narrazione e chiede l’intervento del governo. 

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In una conferenza stampa tenutasi il 14 maggio a Roma, con la presenza dei partiti di opposizione parlamentare – Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra – il più grande sindacato italiano parla di dismissioni e non di riconversione degli impianti Versalis, con un governo complice che si farebbe dettare l’agenda politica dall’ex impresa di Stato. 

Da un lato gli impianti del Sud –  Brindisi, Priolo e Ragusa –  in cui Eni ha già deciso di chiudere gli impianti di cracking ;dall’altro gli impianti del Nord – Mantova, Ferrara, Ravenna, Crescentino – che si troveranno senza fornitura di materiale proveniente dagli impianti dismessi. A rischio non solo i lavoratori diretti ma tutto l’indotto e tutte quelle imprese che dipendono dalla chimica di base – circa l’80% dei prodotti della chimica di base vengono utilizzati da altri settori industriali – senza contare che i lavoratori dei territori del Sud Italia, già colpiti da una carenza occupazionale, verranno costretti a muoversi per trovare impiego nella aziende di settore. L’idea di Eni è infatti mandare i lavoratori in esubero da Brindisi a Sannazzaro o Livorno. 

“Siamo il primo Paese europeo a uscire dalla chimica di base, rompendo quel legame naturale tra industrializzazione di un paese e la produzione di etilene”. A parlare è Marco Falcinelli, segretario generale  Filctem Cgil, “Se Eni vuole andarsene se ne vada – aggiunge –  noi abbiamo bisogno di operatori mondiali. Non è più un’azienda credibile dal punto di vista industriale”. È questa la prima richiesta del sindacato: un intervento politico che possa fermare la dismissione di Eni o che possa favorire la vendita a un operatore, anche estero, in grado di riprendere in mano il settore della chimica. 

Intanto sempre nella giornata del 14 maggio i sindacati – Cgil, Cisl, Uil e Ugl – avrebbero dovuto essere ascoltati alla Camera dei deputati, presso la X Commissione (Attività produttive, commercio e turismo”, sulla “crisi industriale Eni-Versalis”. A tal proposito la CGIL aveva dichiarato di voler depositare una memoria con una serie di proposte che finora Eni non ha dimostrato di voler accogliere. Tuttavia, dopo la presentazione delle domande da parte delle deputate e dei deputati della Commissione, la presidenza della Commissione ha bruscamente rinviato l’audizione dei sindacati al prossimo mercoledi.

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Cosa potrebbe succedere con l’addio di Eni alla petrolchimica

Se venisse data attuazione al piano di “trasformazione” Eni-Versalis, l’Italia sarebbe l’unico tra i Paesi europei più industrializzati a non avere una presenza nella grande petrolchimica integrata. La chiusura degli impianti di cracking rappresenta infatti la fine della produzione dell’etilene, necessario per la produzione di molti tipi di plastiche.

Secondo Falcinelli “la dismissione degli impianti di cracking impedisce l’unico aspetto che potrebbe avere un’attinenza con un futuro green del Paese”. Il punto infatti non è semplicemente decarbonizzare, come dichiara Eni, che afferma di voler tagliare le emissioni per circa 1 milione di tonnellate di CO2equivalente, ma farlo in maniera sostenibile per il comparto industriale e per i lavoratori.

“Il processo di riciclo chimico della plastica può essere fatto senza utilizzare fonti fossili. Gli impianti di cracking, ad esempio, possono essere caricati con materiali di origine vegetale ottenendo gli stessi prodotti alla fine del processo, o con l’olio che si ottiene da riciclo chimico chiudendo così il ciclo dei rifiuti. E invece Eni sta dismettendo la tecnologia industriale”. Ed è questo il secondo aspetto su cui spinge il sindacato. Per farlo però c’è bisogno di investire sugli impianti. “Il disinteresse di Eni nei confronti del settore è evidente ormai dagli anni 2000, da quando si è passati dai 20mila lavoratori ai 7mila di oggi” prosegue il segretario generale. “Gli investimenti non sono mai stati fatti, nel 2011 a Porto Torres per esempio si concordò un piano di riconversione del cracking di 730 milioni di cui spesi circa 200 mila e ora l’occupazione è diminuita di almeno 100 unità”.

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Gli obiettivi di Eni? I mercati

In ogni caso la società non sembra voler rinunciare a vendere i prodotti finiti per cui intende importare dall’estero l’etilene necessario per la produzione di alcune plastiche e le poliolefine quando verrà chiuso definitivamente Brindisi. “Non sappiamo il nome del trader con cui ha stretto accordi Eni ma ci preoccupa particolarmente il fatto che le importazioni avverranno da fuori Europa” ha dichiarato  ancora Falcinelli. “Eni ha intenzione di far arrivare i prodotti che sta dismettendo nei porti del Paese e poi si occuperà di consegnarli alle aziende utilizzatrici – aggiunge – Dal punto di vista societario Versalis si sta attrezzando in questo modo, creando una nuova società che si occuperà esclusivamente della commercializzazione di questi prodotti attraverso i porti italiani”.

Sembra sempre più evidente che da partecipata dello Stato con un ruolo industriale di primo piano, il cane a sei zampe si stia trasformando in una società che fornisce prodotti finiti e servizi. Per Falcinelli gli incontri con l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi lo hanno dimostrato: “Non ha mai nascosto la sua idea di Paese: un Paese in cui non si può più fare industria. In Italia ormai gli obiettivi dichiarati sono i mercati”. 

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Che l’azienda si voglia occupare solo di commercializzare i prodotti per venderli sul mercato ma non intenda più produrli lo si può notare anche in altri processi industriali come la cattura e lo stoccaggio della Co2, dove Eni fornirà semplicemente il servizio di stoccaggio alle aziende che vorranno usufruire di questa opportunità per rispettare le normative europee sulla riduzione delle emissioni.

Insomma: Eni sta passando, o dovremmo dire che è ormai passata, da un’industria al servizio dello Stato  a business che promuove gli interessi degli investitori. E a rimetterci sono chi ci lavora e l’ambiente.

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