La mycoremediation marina rappresenta oggi una delle più promettenti frontiere nella lotta all’inquinamento degli ecosistemi acquatici. Questo approccio innovativo sfrutta il potenziale metabolico dei funghi marini unicellulari per degradare una vasta gamma di inquinanti persistenti.
Con l’emergenza ambientale che affligge i nostri oceani, diventa cruciale esplorare soluzioni efficaci e sostenibili come questa, capace di affrontare le principali minacce: plastiche, derivati del petrolio e metalli pesanti.
Inquinamento marino: il problema delle micro e nano plastiche
L’invasione di inquinanti nell’ambiente marino è uno dei grandi problemi del XXI secolo: i derivati del petrolio, i metalli pesanti e soprattutto la plastica, che dal materiale “magico” degli anni ’50 si è trasformata in un incubo. Un materiale “eterno” (almeno per la nostra scala del tempo) gettato senza criterio nell’ambiente viene ridotto in frammenti sempre più piccoli (le micro e nano plastiche) che risalgono la catena alimentare fino a fare stabilmente parte del nostro corpo. Con conseguenze in gran parte sconosciute.
Se davanti a una confezione di shampoo che galleggia sul mare o si deposita sulla spiaggia, possiamo pensare – con un po’ di buona volontà – di raccoglierla, cosa possiamo fare con frammenti di pochi millimetri o anche meno?
Ci potrebbero aiutare i funghi, ma non quelli che incontriamo passeggiando nei boschi. Di funghi ne esistono moltissime specie. Basti pensare che il phylum a cui appartengono, è il più abbondante in natura dopo quello degli artropodi: si stima che contenga più di tre milioni di specie. La maggioranza è costituita dai funghi unicellulari, di cui gran parte sono funghi marini. Una presenza discreta e invisibile, ma molto importante per gli ecosistemi e per l’uomo.
È opportuno precisare cosa si intende per funghi marini e cosa li differenzia dai funghi terrestri. Per prima cosa, quasi tutti i funghi marini sono composti da una sola cellula. Ma l’aspetto più importante, dal nostro punto di vista, è legato alle componenti cellulari di questa cellula fungina, in particolar modo ai suoi enzimi. Gli enzimi sono proteine catalizzatrici: intervengono nella riuscita e nella velocità di determinate reazioni chimiche, abbassando di molto l’energia richiesta per il loro compimento. In questo, gli enzimi che si trovano all’interno dei funghi marini sono molto più efficienti di molti altri enzimi omologhi in cellule animali o vegetali. E anche di quelli che si trovano nei funghi terrestri.
Potenzialità degli enzimi per migliorare la salute dei nostri ecosistemi
Ci interessa, e molto, perché questi enzimi, come altre molecole, possono essere utilizzate, per esempio, a fini medici. Basti ricordare, al riguardo, che il primo antibiotico, scoperto da Alexander Fleming nel 1928, che gli valse il premio Nobel per la medicina, è a base di penicillina, un metabolita battericida sintetizzato dai funghi e isolato da un fungo del genere Penicillum. Studiare i funghi marini può permetterci di sviluppare antibiotici molto più potenti e curare malattie più resilienti. Ma anche a migliorare la salute dei nostri ecosistemi.
Negli ultimi anni, in particolar modo nell’ultimo decennio, la scienza si sta concentrando su una nuova frontiera, che in futuro potrà dare un enorme contributo per la salvaguardia e il recupero degli habitat terrestri e marini di tutto il mondo. La nuova frontiera è la bio-remediation, termine che comprende tutte le attività di risanamento ambientale tramite l’utilizzo di organismi animali o vegetali. Questa nuova frontiera si sta sviluppando soprattutto in ambiente marino, dove vengono utilizzati soprattutto funghi e micro-alghe, per risanare ambienti fortemente colpiti dall’inquinamento di sostanze chimiche, come idrocarburi, metalli pesanti o CFC, ma anche dall’inquinamento dell’onnipresente plastica. In particolare, i funghi, grazie ai meccanismi enzimatici su cui si basa il loro metabolismo, sono bio-degradatori molto potenti: degradano la materia organica o inorganica complessa (composta da lunghi polimeri) in materia più semplice fatta di monomeri, dimeri o trimeri.
La maggior parte dei funghi opera questa bio-degradazione sulla cellulosa, ma ne esistono altri che fondano i loro metabolismi su polimeri più complessi e spesso anche inorganici. Tra questi ci sono funghi che degradano metalli pesanti, idrocarburi aromatici e scarti chimici dell’agricoltura (Nahid Akhtar et al.).
Il termine mycoremediation comprende tutti quei processi chimici e biologici che portano alla degradazione di sostanze inquinanti nell’ambiente, grazie all’utilizzo dei metabolismi fungini. Metabolismi che, vale la pena di ripeterlo, nei funghi marini hanno un’efficienza metabolica superiore a quella dei funghi terrestri. Per questo sono la punta di diamante della mycoremediation.
Per ciò che riguarda le applicazioni degli interventi di mycoremediation, distinguiamo due tipologie di interventi, in-situ ed ex-situ. Nel primo caso, si impiantano i funghi direttamente nel sito contaminato, nel secondo si preleva il sito contaminato e lo si aggiunge alla coltura fungina, all’interno di bioreattori o biopile (strutture apposite, deputate all’accoglienza dei terreni/acque contaminate).
Le applicazioni di mycoremediation in ambiente marino sono condizionate dalle tre grandi fonti di inquinamento.
Funghi marini nella degradazione delle microplastiche
Le materie plastiche comprendono tutti quei materiali a base di polimeri complessi a lunga catena, che comunemente chiamiamo “plastica”. Questi materiali, a causa della loro catena molecolare lunga e complessa, hanno tempi di degradazione estremamente lunghi: quello che appariva uno straordinario vantaggio per realizzare prodotti durevoli e a basso costo si è trasformato in un pericolo mortale per l’ambiente, soprattutto da quando un materiale praticamente “eterno” è stato usato massicciamente per produrre contenitori usa e getta. In mare le plastiche assumono una pericolosità ancora maggiore se consideriamo che l’azione di acqua e vento, nel tempo, va a degradare progressivamente materiali alla deriva. È così che la plastica non “sparisce”, ma si frantuma, portando alla formazione delle cosiddette microplastiche, che possono essere ingerite dagli organismi marini causandone la morte e/o entrando nella catena alimentare, fino ad arrivare nelle nostre tavole.
Il problema delle materie plastiche in mare può essere affrontato grazie al metabolismo del fungo marino Parengyodontium album (A. Vaksmaa et al., 2024). Da analisi effettuate su un campione di materie plastiche provenienti dalla famosa “isola di plastica” del Pacifico, è emerso infatti come il metabolismo di questo fungo degradi il polietilene (PE), una delle plastiche più invasive, usato massicciamente per produrre bottiglie, flaconi, buste, pellicole e altro.
Mycoremediation marina negli sversamenti di petrolio
Un’altra minaccia molto significativa verso la salute degli ecosistemi marini è rappresentata dagli sversamenti di petrolio. Questi possono verificarsi per una perdita negli impianti di estrazione off-shore, come nel disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, che nel 2010 sversò petrolio nelle acque del Golfo del Messico per oltre 106 giorni. O per l’affondamento delle grandi petroliere, come nel caso italiano della Haven, che nel 1991 versò circa 90.000 tonnellate di petrolio, di fronte alle coste di Genova. O, ancora, in tutti gli incidenti alle navi che comportano una perdita di carburante.
Proprio grazie ai recenti studi sulla mycoremediation, è stato scoperto che il fungo Penicillium chrysogenum riesce a degradare gli idrocarburi e per questo viene utilizzato comunemente negli interventi di biorisanamento (Erika et al., 2011).
Applicazioni della mycoremediation marina contro i metalli pesanti
Nella categoria dei metalli pesanti non rientrano solo i metalli propriamente detti, quelli che nella tavola periodica degli elementi sono classificati come tali. Sono metalli pesanti tutti quegli elementi – come l’arsenico, il selenio e il piombo – che hanno una grande affinità con l’ossigeno, l’azoto e lo zolfo e che, per questo, sono in grado di formare composti nel citoplasma cellulare, che non vengono smaltiti facilmente e, per questo, tendono ad accumularsi. I metalli pesanti sono estremamente tossici e cancerogeni e rappresentano un pericolo per la nostra salute.
A causa dei fertilizzanti usati in agricoltura, che li contengono, i metalli pesanti sono molto presenti in mare, e si accumulano soprattutto negli organismi marini filtratori, quali mitili e altri bivalvi.
Ad oggi sono stati scoperti molti ceppi fungini in grado di degradare metalli pesanti in mare. Tra tutti il più celebre è il Penicillium Rubens, molto utilizzato anche negli allevamenti di molluschi filtratori (Anitha SP, 2022).
A questo punto si potrebbe pensare che il problema sia risolto. Che basti spargere un po’ di spore fungine nelle acque più inquinate (o, perché no, nell’”isola di plastica” del Pacifico) e aspettare che i funghi marini concludano il loro lavoro. Non funziona così. O, meglio, non è sufficiente, perché l’interazione tra funghi (e alghe) e materiali inquinanti in ambiente acquatico ha tutte le caratteristiche degli ecosistemi complessi, in cui interagisce un numero elevatissimo di fattori con modalità e con esiti non sempre prevedibili. In più, il bio-risanamento ambientale deve essere efficiente e sostenibile su larga scala, altrimenti serve al massimo a tappare qualche falla, ma non a raddrizzare situazioni compromesse.
Qui un supporto importante può venire dall’intelligenza artificiale e dal machine learning che hanno dimostrato la loro preziosa efficacia tutte le volte in cui è necessario recepire molti input, individuare schemi nascosti, agire velocemente.
In questo campo, nell’ultimo decennio, ci sono già applicazioni operative molto incoraggianti. Per esempio, con l’applicazione dell’AI e del ML nelle operazioni di bio-risanamento nei sistemi di coltura algale o fungina basati sulle acque reflue (noti come WBAC, Wastewater Based Algal Culture).
In primo luogo, gli algoritmi di AI e ML possono analizzare i dati rilevati da un sistema di sensori intelligenti su parametri cruciali come pH, temperatura, ossigeno disciolto, livelli di nutrienti nelle acque reflue e concentrazione di biomassa algale o fungina. A partire da questi dati, gli algoritmi dell’intelligenza artificiale sono in grado di:
- monitorare il sistema WBAC, rilevando le anomalie;
- individuare i modelli predittivi di crescita algale/fungina in funzione dei parametri ambientali e delle caratteristiche delle acque reflue;
- ottimizzare l’apporto di nutrienti e altre condizioni operative, cioè agendo sul sistema.
Tutto in tempo reale, riducendo drasticamente gli interventi umani e massimizzando l’efficienza del sistema che significa produzione di biomassa e rimozione degli inquinanti (Sundui et al., 2021).
Ciò consente, da una parte, una migliore pianificazione e ottimizzazione del sistema WBAC – favorendo i processi decisionali relativi alla raccolta delle alghe e all’efficienza del trattamento delle acque reflue – e, dall’altra, velocizzare lo sviluppo di nuove conoscenze e di nuovi approcci.
Ma, ovviamente, non ci si può limitare alle acque reflue, che costituiscono un sistema se non chiuso, almeno sufficientemente confinato. La vera sfida, quella più urgente, è integrare le tecnologie innovative per affrontare le sfide ambientali in ambito marino. In un mondo in cui il 71% della superficie è ricoperta da acqua, la tutela e la conservazione degli oceani non può che essere una priorità. Qui la mycoremediation, supportata dall’uso di algoritmi avanzati di machine learning, apre nuove prospettive per il risanamento degli ecosistemi marini, consentendo interventi più mirati, efficienti e sostenibili.
Il progetto “SEDITERRA”: mycoremediation marina applicata ai sedimenti portuali
A testimoniare la grande potenzialità ed efficacia della mycoremediation, c’è il progetto “SEDITERRA” realizzato dal Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita – DISTAV – dell’Università di Genova. Il progetto nasce al fine di ridurre la presenza di sostanze inquinanti nel sedimento di aree portuali. I sedimenti dei porti, infatti, sono ricchi di sostanze nocive per gli organismi marini. Questo rappresenta un grande problema per il fatto che nei porti si effettuano frequentemente attività di dragaggio, che quindi, smuovendo il sedimento, portano in sospensione queste sostanze rendendole pericolose per gli organismi marini. Il progetto SEDITERRA consiste nel trapiantare nel sedimento delle sottilissime membrane di poliestere forato, inoculate con vari ceppi fungini. In questo modo i funghi possono assorbire le sostanze inquinanti, sequestrandole dall’ambiente e riducendo il tasso d’inquinamento. Le membrane sono monitorate in tre diversi intervalli di tempo (dopo 15, 30 e 60 giorni) per osservare l’evoluzione del processo di bio-accumulo dei funghi. Dai risultati finali emerge che i funghi sono in grado di bio-accumulare, quindi sequestrare dall’ambiente e rendere innocui, elementi tossici come Cadmio, Nichel, Cromo e Zinco (Grazia Cecchi et al., 2020). Nell’analisi dei risultati hanno giocato un ruolo fondamentale l’AI e il ML in quanto per ogni campione veniva calcolata l’efficienza di recupero (RE) e la differenza dell’efficienza di recupero (DRE). Il primo parametro esprime la capacità di assorbimento del sistema membrana-fungo, il secondo evidenzia esclusivamente il contributo fungino nell’assorbimento. Grazie all’AI e al ML è stato possibile, non solo calcolare questi parametri, ma anche confrontarli per osservare differenze tra i vari ceppi fungini nei tre intervalli di tempo.
I funghi marini, grazie alle loro straordinarie capacità metaboliche, si confermano risorse fondamentali per lo sviluppo di tecnologie in ambito medico e ambientale, in particolare per gli ambienti acquatici. Investire nella ricerca e nello sviluppo di queste tecnologie non è solo un’opportunità scientifica, ma una necessità per garantire la tutela del nostro pianeta e delle generazioni future.
Bibliografia
Nahid Akhtar, M. Amin-ul Mannan, “Mycoremediation: Expunging environmental pollutants”, Biotechnology Reports, volume 26, 2020.
A. Vaksmaa, “Biodegradation of polyethylene by the marine fungus Parengyodontium album”, Science of the Total Environment, volume 934, 2024.
Erika A. Wolski, V. Barrera, C. Castellari, J. F. Gonzalez, “Biodegradation of phenol in static cultures by Penicillium chrysogenum ERK1: catalytic abilities and residual phytotoxicity”, Revista Argentina de Microbiología 44: 113-121, 2012.
Anitha SP, M B Tech, SASTRA deemed to be University, Thanjavur, Tamil Nadu, India, “Mycoremediation of Heavy Metals in Marine Ecosystems Using Fungal Endophytes”, Technoarete Transactions On Recent Research In Applied Microbiology And Biotechnology (TTRRAMB), Vol-1, Issue-1, 2022.
Sundui et al, “Applications of machine learning algorithms for biological wastewater treatment: Updates and perspectives”, Clean Technologies and Environmental Policy, 23(3):1-17, 2021.
Grazia Cecchi et al, “From waste to resource: mycoremediation of contaminated marine sediments in the SEDITERRA Project”, Journal of Soils and Sediments, Volume 20, pages 2653–2663, 2020.
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