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Trump – Parte II, i 100 giorni di fuoco


Ancora all’inizio della seconda presidenza Trump, 100 giorni fa, le prospettive di crescita sia dell’economia mondiale che di quella americana apparivano positive. Certo, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca ci si attendeva un aumento dei dazi. Il loro impatto negativo sarebbe stato però in parte compensato dalle riduzioni d’imposta e dalle misure di deregolamentazione previste nel programma trumpiano.  

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Nelle sue previsioni di gennaio il Fondo monetario internazionale (FMI) indicava che nel 2025 la crescita dell’economia mondiale sarebbe stata del 3,3% in termini reali, mentre quella statunitense avrebbe raggiunto un robusto 2,7%. Il 22 aprile però, nelle sue previsioni di primavera, l’FMI ha rivisto significativamente al ribasso questi numeri: 2,8% per la crescita mondiale e 1,8% per quella americana (tagliata dunque di un terzo). Non solo: l’FMI ha anticipato che i rischi di ulteriori sviluppi negativi sono in forte aumento. Le banche d’affari statunitensi hanno previsioni simili a – e sovente più pessimistiche di – quelle dell’FMI. Inoltre, hanno aumentato fortemente, talora al di sopra del 50%, le probabilità di recessione dell’economia USA nella seconda metà del 2025.  

Il caos tariffario 

Il fattore che ha determinato il deterioramento sostanziale del quadro economico è stata la politica commerciale trumpiana. A cavallo tra gennaio e febbraio l’annuncio a sorpresa di tariffe contro tre dei principali partner economici degli Stati Uniti (Canada e Messico con un 25% e Cina con un 10%) ha dato il via all’aggressione daziaria trumpiana contro il resto del mondo. Quel che è seguito è stato un giro mozzafiato sulle montagne russe tariffarie:  

  1. dazi annunciati, sospesi, reintrodotti, parzialmente modificati contro Canada e Messico; 
  1. escalation di dazi contro la Cina (10%+10%+34%+91%);  
  1. dazi settoriali già entrati in vigore (acciaio e alluminio);  
  1. dazi settoriali già in vigore, ma che potrebbero essere temporaneamente sospesi (auto e/o componenti per le auto);  
  1. dazi settoriali in considerazione (semiconduttori e prodotti farmaceutici);  
  1. dazi universali già in vigore del 10% su quasi tutte le importazioni (con alcune eccezioni come petrolio, GNL e altri prodotti energetici);  
  1. dazi “reciproci” che variano a seconda del rapporto surplus commerciale/importazioni USA che ogni Paese, per quanto piccolo, ha con gli Stati Uniti (sospesi – tranne per la Cina – per 90 giorni a partire dal 9 aprile in seguito a un repentino aumento dei rendimenti dei titoli di Stato americani);  
  1. esenzioni (temporanee) per le importazioni di prodotti elettronici (smartphone, computer, semiconduttori), acquistati in particolare dalla Cina.  

Un tale turbinio di annunci roboanti e retromarce parziali ha inevitabilmente provocato un forte aumento dell’incertezza, che ha raggiunto picchi visti solo al tempo della Grande crisi finanziaria e della pandemia (Figura 1). 

Figura 1 – Andamento dell’indice di volatilità VIX 

Fonte: Cboe Global Markets 

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Saldo e stralcio

 

Il risultato è stato che molte imprese hanno congelato o ritardato i loro progetti di investimento in attesa di disporre di un quadro più chiaro della situazione, mentre i consumatori americani hanno accelerato gli acquisti di beni importati non deperibili, i cui prezzi potrebbero aumentare a causa dei dazi. Gli indicatori di fiducia di consumatori e investitori sono in forte discesa, mentre i sondaggi d’opinione indicano che la maggioranza degli americani esprime una valutazione negativa della politica economica di Trump. Infine, i mercati finanziari hanno subito perdite significative (Figura 2): l’euforia iniziale per un’“età dell’oro” in cui gli indici azionari di Wall Street avrebbero raggiunto picchi mai raggiunti prima si è scontrata con la dura realtà degli effetti dei dazi sull’economia.   

Figura 2 – Andamento degli indici di Wall Street da inizio anno al 2 maggio 2025

Fonte: elaborazione ISPI su dati Yahoo Finance 

Il muro contro muro con la Cina, che crea di fatto una sorta di embargo reciproco che può provocare un rapido decoupling delle due economie, rischia di aggravare ulteriormente la situazione economica. Inoltre, non vi è alcuna garanzia che nei 90 giorni di “tregua” l’amministrazione Trump riuscirà a siglare accordi bilaterali con i suoi principali partner (in primis l’Unione europea), il che potrebbe portare o a una riconduzione della pausa o, in alternativa, a un conflitto commerciale. In entrambi i casi l’incertezza permarrebbe e, nel caso i negoziati fallissero, addirittura aumenterebbe, accrescendo ulteriormente i rischi di recessione. Naturalmente una rapida de-escalation tramite il raggiungimento di soluzioni negoziate tra gli USA e il resto del mondo potrebbe ancora evitare il peggio. Tuttavia, anche in tale scenario, i danni significativi già prodotti non potrebbero essere cancellati e l’economia americana dovrebbe comunque affrontare un forte rallentamento. 

Oltre ai dazi 

L’attacco di Trump alla Federal Reserve e al suo presidente Jerome Powell deve essere collocato in questo contesto. Trump vorrebbe usare la politica monetaria per contrastare il “temporaneo” momento di difficoltà generato dalla sua politica commerciale. Ma i dati non giustificano un taglio dei tassi d’interesse nel breve periodo: l’economia per il momento non è in recessione, mentre l’inflazione resta sopra l’obiettivo della Fed, il tasso di disoccupazione è basso e i dazi faranno sentire il loro impatto sui prezzi prima che sull’attività economica. A questo riguardo, la leggera contrazione del PIL nel primo trimestre del 2025 (-0,3% annualizzato) non cambia il quadro d’insieme, in quanto interamente dovuta a un fortissimo aumento delle importazioni (+41,8% su base annuale) in vista delle tariffe trumpiane. D’altra parte, la crescita dei consumi privati, anche se in decelerazione, resta positiva (+1,8%), mentre gli investimenti privati sono aumentati del 21,9% (anche se 2/3 di tale aumento sono dovuti all’accumulazione di scorte di prodotti importati in preparazione dei dazi). Per cui la domanda interna resta relativamente forte e il dato negativo del PIL non sembra al momento indicare che l’economia stia entrando in recessione. Di conseguenza, è improbabile che Powell e il Federal Open Market Committee si pieghino alle richieste della Casa Bianca. Vi saranno tagli ai tassi nel 2025, ma, salvo un ulteriore forte deterioramento dell’economia, saranno pochi e probabilmente verranno dopo l’estate.  

Rendendosi conto di questo, Trump ha lanciato un’offensiva mediatica contro Powell, indicando la sua preferenza per un rapido cambio alla guida della banca centrale (il mandato di Powell scade nel 2026). Tuttavia, la preoccupata reazione dei mercati ha spinto la Casa Bianca a fare marcia indietro. Anche se la soluzione preferita da Trump è probabilmente quella di sostituire il numero uno della Fed il più rapidamente possibile con qualcuno di più malleabile, la pressione dei mercati, congiuntamente al fatto di poter usare la banca centrale come parafulmine su cui scaricare la frustrazione degli elettori per l’andamento insoddisfacente dell’economia, farà sì che Powell probabilmente potrà portare a termine il proprio mandato, pur in presenza di un conflitto protratto tra la Casa Bianca e l’autorità monetaria. 

Le turbolenze generate dalla politica economica trumpiana hanno anche mostrato un inatteso punto debole dell’economia americana: la fiducia nei titoli del Tesoro si sta erodendo e in momenti di forte stress, com’è stato il caso il 9 aprile, una parte degli investitori cerca safe haven diversi dal dollaro. Di conseguenza, in questi momenti di stress gli USA non possono più contare sul “privilegio esorbitante” del dollaro per finanziare a basso costo il loro debito pubblico. Durante le turbolenze all’inizio di aprile si è assistito in contemporanea a un rapido aumento dei rendimenti obbligazionari (dovuto alla difficoltà di piazzare nuove emissioni di Treasuries), una forte caduta dei valori azionari e un sostanziale deprezzamento del dollaro. Così come nel caso del minacciato licenziamento del presidente della Federal Reserve, Trump si è reso conto di non poter prescindere interamente dagli andamenti dei mercati e dalle posizioni dell’opinione pubblica statunitense per far avanzare la propria agenda economica. 

Alla ricerca di stimoli 

Guardando avanti, oltre alla de-escalation tariffaria, Trump dispone di due carte per far riprendere quota all’economia USA La prima carta riguarda le misure di deregolamentazione. L’amministrazione ha già introdotto un numero significativo di provvedimenti, soprattutto nel settore dell’energia, al fine di aumentare la produzione e l’esportazione di energie fossili. Tuttavia, l’atteso rallentamento della crescita mondiale legato alla politica tariffaria di Washington e l’aumento della produzione nei Paesi appartenenti all’OPEC+ hanno fatto scendere i prezzi del petrolio e del GNL, rendendo gli investimenti nel settore meno interessanti. Di conseguenza, almeno nel breve periodo, la deregolamentazione del settore energetico non dovrebbe avere un impatto macroeconomico significativo. Dal lato delle potenzialità, c’è comunque la possibilità che gli accordi commerciali che l’amministrazione siglerà in seguito ai negoziati sulle “tariffe reciproche” comprendano impegni di acquisto di petrolio e GNL statunitensi, anche a un prezzo superiore a quello di mercato, il che potrebbe rilanciare la produzione e gli investimenti americani nel settore. Ma questo lo sapremo solo quando tali accordi saranno finalizzati. 

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La seconda carta di cui dispone Trump è il taglio delle tasse. Alla fine del 2025 molte delle riduzioni d’imposta contenute nel Tax and Jobs Act del 2017 vengono a scadenza e devono essere rinnovate per evitare un repentino consolidamento fiscale che porterebbe l’economia in recessione. Ad esse si aggiungono ulteriori riduzioni d’imposta contenute nel programma elettorale di Trump. Mentre l’impatto macroeconomico dell’estensione delle riduzioni d’imposta è praticamente nullo, i tagli addizionali avrebbero comunque un piccolo effetto espansivo, così come l’atteso incremento delle spese militari e delle spese per rafforzare le frontiere contro i flussi migratori. Queste voci di bilancio aumenterebbero però anche il deficit, al momento superiore al 6% del PIL, mentre i Repubblicani nel Congresso sembrano intenzionati a ridurlo. A questo riguardo, le entrate generate dai dazi, le drastiche riduzioni di spesa imposte dal DOGE (Department of Government Efficiency) e ulteriori tagli in alcuni programmi federali che i Repubblicani stanno considerando dovrebbero teoricamente più che compensare le riduzioni d’imposta e le spese addizionali. Tuttavia, è probabile che l’aumento dei costi di rifinanziamento del debito pubblico statunitense (anche in seguito alle turbolenze del 9 aprile) ridurrà significativamente la seppur modesta diminuzione del deficit perseguita dalla maggioranza repubblicana al Congresso. In generale, il contributo della politica fiscale trumpiana alla crescita dell’economia americana finirà per essere probabilmente neutro o solo marginalmente positivo. 

Le due carte che Trump ha ancora nella manica non sembrano dunque in grado di riportare la crescita statunitense ai livelli preconizzati al momento del suo insediamento alla Casa Bianca. 

Rivoluzione in corso 

In soli 100 giorni Trump ha trasformato parti importanti delle basi del capitalismo statunitense, sia attraverso politiche di radicale rottura sia adottando misure che hanno accelerato tendenze già in corso. 

La politica commerciale trumpiana non solo indebolisce la crescita globale e americana, ma affossa anche l’ordine economico internazionale basato su un sistema regole creato in larga parte dagli stessi Stati Uniti, aprendo la via a relazioni economiche basate essenzialmente sui rapporti di forza. La dimostrazione plastica del nuovo stato di cose la si è avuta con la presentazione della formula con cui sono stati calcolati i “dazi reciproci” contro il resto del mondo. In teoria, essa avrebbe dovuto catturare le barriere tariffarie e non tariffarie alla base dello squilibrio commerciale statunitense. In realtà, la formula non aveva alcun senso economico: era solo un pretesto per imporre in modo arbitrario dazi al resto del mondo (pinguini compresi).  

Anche se c’è un consenso unanime tra gli economisti nel bollare la narrativa commerciale trumpiana come nonsense, i diversi Paesi hanno comunque dovuto piegarsi e aprire negoziati con l’amministrazione statunitense, offrendo concessioni unilaterali per poter continuare ad aver accesso al mercato USA ed evitare misure di ritorsione ancora più pesanti. Nel breve periodo, si può cercare di navigare in ordine sparso attorno a questo nuovo sistema anarchico di relazioni economiche internazionali, cercando di minimizzare le eventuali perdite. Se però esso si perennizza, una tale navigazione a vista non sarà più possibile. Nel medio-lungo periodo, relazioni economiche internazionali basate sull’unilateralismo e sui rapporti di forza rischiano di produrre un sistema basato sulla legge del più forte, che, oltre a essere profondamente iniquo, alimenta incertezza, conflitti commerciali diffusi e inefficienza economica.   

La preferenza di Trump per un’arbitrarietà decisionale quasi assoluta e la volontà di piegare istituzioni economiche indipendenti ai suoi desiderata stanno già producendo danni notevoli e avranno ripercussioni che andranno ben oltre la durata della sua presidenza. In alcuni casi la funzione disciplinante dei mercati e dell’opinione pubblica lo ha costretto a fare dei passi indietro. Tuttavia, è chiaro che la “soglia del dolore” di Trump II è molto superiore a quella di Trump I. Pertanto, è probabile che per il resto del mandato il presidente continuerà incessantemente nella sua opera di smantellamento del governo federale, che regolava il funzionamento del capitalismo americano e del modello di welfare creato dal New Deal rooseveltiano, per sostituirli con una forma di nazionalismo economico accoppiata a un libertarismo imprenditoriale predicato e praticato dai CEO dell’high-tech, subordinato però alle indicazioni/istruzioni che provengono direttamente dalla Casa Bianca. Un tale amalgama finirà per produrre un capitalismo clientelare sui generis. L’assenza di un level playing field e l’indebolimento della concorrenza che ne consegue, la promozione dello scambio di favori economici in cambio di favori politici all’interno di un’oligarchia politicamente connessa non possono che minare il dinamismo economico degli Stati Uniti, alimentare l’affermazione di monopoli, allocare le risorse in modo inefficiente, aumentare il rischio di crisi finanziarie, aggravare le disuguaglianze di reddito e di ricchezza e, last but not least, avere importanti ripercussioni sul carattere e sulla natura della democrazia USA.     

Trump aveva promesso che, se rieletto, avrebbe cambiato l’America. In economia lo sta sicuramente facendo. Tuttavia, la direzione intrapresa ben difficilmente porterà il Paese a una “nuova età dell’oro”.  

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