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Il referendum su infortuni e appalti: intervista di Vincenzo A. Poso a Claudio Scognamiglio, Patrizia Tullini e Andrea Morrone


Il referendum abrogativo parziale dell’art. 26, comma 4, ultimo cpv., del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 sull’esclusione della responsabilità solidale del committente per i danni subiti dai lavoratori dipendenti delle imprese appaltatrici o subappaltatrici in caso di infortunio sul lavoro e malattia professionale

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V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di Cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).

Il quarto, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Sicuro” ha ad oggetto il seguente quesito:

«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?».

Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro sicuro”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti nell’appalto e nel subappalto, per i danni subiti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun sub-appaltatore oltre la quota indennizzata dall’INAIL o dall’IPSEMA, in caso di infortunio, quindi per il c.d. “danno differenziale” riconosciuto dal giudice a copertura dei danni ulteriori subiti in base alle tabelle civilistiche. «L’utilizzo della responsabilità solidale – che il referendum mira a ripristinare nella sua totalità – è la regola di base generale volta a impedire che le diverse forme di decentramento produttivo si risolvano nella limitazione delle tutele del lavoro, facendo sì che il committente si rivolga ad appaltatori solidi finanziariamente e in regola con le norme antinfortunistiche».

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Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio di tracciare un quadro sintetico degli obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione disciplinati dell’art. 26, d. lgs. n. 81/2008 – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute nel tempo – tenuto conto delle modifiche normative nel frattempo intercorse.

Innanzitutto, quali sono gli obblighi generali che incombono sul datore di lavoro disciplinati dal comma 1 dell’art. 26 «in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo».

 

C. Scognamiglio. Ritengo utile fare una premessa. Gli obblighi per la sicurezza di cui all’art. 26 d.lgs. n. 81 del 2008, presuppongono l’interferenza tra imprese, anche in caso di mancanza di appalto. La ratio dell’art. 26, mediante il quale si impongono al datore di lavoro che si avvale di soggetti terzi obblighi informativi, di verifica e di prevenzione per la sicurezza sui luoghi di lavoro, è di fare in modo che si prevengano i rischi derivati dall’interferenza di più imprese nel medesimo luogo di lavoro. Si tratta di obblighi che possono sussistere anche se non vi è stata la stipula di un contratto di appalto, e per il solo fatto che si è realizzata un’interferenza tra le attività delle imprese (Cass. pen. n. 28616/2015).

Ciò posto, rammento che il 1° co. dell’art. 26 racchiude obblighi di verifica ed obblighi di fornire informazioni.

In particolare, per quanto riguarda il primo profilo, la norma dispone che, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima (sempre che questa abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo), il datore di lavoro deve verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Tale verifica è eseguita attraverso 1) l’acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, e 2) l’acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa D.P.R. 28/12/2000, n. 445, di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2000, n. 445.

Pertanto, la citata verifica riguarda, da un lato, i requisiti generali (visura camerale), dall’altro, i requisiti tecnici. I dati emersi dalla prassi evidenziano che, spesso, l’attenzione delle imprese è focalizzata sul primo aspetto, mentre il secondo è per lo più trascurato. Ricordo che la Cassazione ha precisato, al riguardo, che il rispetto dell’obbligo di verifica relativo all’idoneità tecnico-professionale dell’impresa non può ridursi al controllo dell’iscrizione dell’appaltatore nel registro delle imprese, che integra un adempimento di carattere amministrativo, ma esige la verifica, da parte del committente, della struttura organizzativa dell’impresa incaricata e della sua adeguatezza rispetto alla pericolosità dell’opera commissionata (Cass. pen. n. 2872/2020).

Circa, invece, gli obblighi informativi, il datore deve fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.

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V. A. Poso. Ci sono, poi, gli obblighi, generali, di cooperazione e coordinamento che incombono su tutti i datori di lavoro, compresi i subappaltatori (in tutte le ipotesi di cui al comma 1, cit.) previsti dal comma 2 dell’art. 26, cit.; mentre il successivo comma 3 disciplina, in dettaglio, i compiti che spettano al datore di lavoro committente per promuovere la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2.

 

C. Scognamiglio. Sì, esatto. Il 2° co., in particolare, prevede che i datori di lavoro, compresi i subappaltatori, cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto, e coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva.

La cooperazione ed il coordinamento, ai sensi del 3° co., devono essere promossi dal committente, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali (con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi), un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento.

Il documento deve essere allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture.

Ricordo poi che, come prevede la stessa norma, a tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

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Nel caso di individuazione dell’incaricato sopra indicato o della sua sostituzione, deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera.

Preciso, infine, che il concetto di interferenza, ai fini dell’operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione è dato dal contatto rischioso tra il personale di imprese diverse operanti nello stesso contesto aziendale. Pertanto, ai fini dell’applicazione della norma, occorre aver riguardo alla concreta interferenza tra le diverse organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per l’incolumità dei lavoratori, e non alla mera qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro – vale a dire contratto d’appalto o d’opera o di somministrazione – in quanto la ratio della norma è quella di obbligare il datore di lavoro ad organizzare la prevenzione dei rischi interferenziali attivando percorsi condivisi di informazione e cooperazione nonché soluzioni comuni di problematiche complesse (in questo senso Cass. pen. n. 9167/2018).

                                  

V. A. Poso. Con alcune importanti esclusioni, quanto all’attività di promozione della cooperazione e del coordinamento del committente (comma 3) previste dal successivo comma 3-bis (introdotto dall’art. 16,comma 3, d.lgs. 3 agosto 2009,n. 106, e poi modificato dall’art. 1,comma 1, d.lgs. 4 settembre 2024,n.135).

 

C. Scognamiglio. In effetti, la norma citata esclude l’applicazione del 3° co. ai servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è superiore a cinque uomini-giorno, sempre che essi non comportino rischi derivanti dal rischio di incendio di livello elevato, o dallo svolgimento di attività in ambienti confinati (di cui al d.P.R. 177/201) o dalla presenza di agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione o biologici, di amianto o di, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari.

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Per completezza, aggiungo che l’ultima parte di tale norma è stata recentemente modificata. Mi riferisco al d.lgs. n. 135/2024, entrato in vigore lo scorso ottobre, e che ha attuato la direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2022 (che ha modificato la direttiva 2004/37/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro). Tale decreto, con i suoi 22 articoli, ha introdotto, appunto, modifiche al Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro.

Le espressioni “agenti cancerogeni e mutageni” sono state sostituite da “agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione”, così comprendendo nel campo di applicazione degli obblighi antinfortunistici anche tali sostanze. Le nuove norme si sono concentrate anche sugli obblighi informativi e formativi in capo al datore di lavoro, fornendo le indicazioni sul contenimento del rischio in caso di utilizzo o produzione di sostanze tossiche per la riproduzione, e sulla redazione del documento di valutazione del rischio.

                                    

V. A. Poso. Il comma 3-ter (introdotto dall’art. 16,comma 3,d.lgs. 3 agosto 2009,n106) pone a carico del soggetto che affida il contratto la redazione del documento di valutazione dei rischi con alcuni particolari accorgimenti.    

 

C. Scognamiglio. Il documento di valutazione rischi da interferenze (il c.d. DUVRI) deve comprendere una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Spetta, poi, al soggetto presso il quale il contratto deve essere eseguito, e prima dell’inizio dell’esecuzione, integrare il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. Tale integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integrerà in questo modo gli atti contrattuali.

La norma fa riferimento a “tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente”; tale formulazione, forse poco tecnica, lascia comunque intendere che il DUVRI è necessario in ogni caso in cui può esserci una interferenza tra chi esegue l’appalto e un qualsiasi altro lavoratore.

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Va poi precisato, nel solco di quanto ho accennato anche poc’anzi, che, con l’espressione “interferenza” non ci si riferisce solo ad una interazione fisica tra soggetti presenti nello stesso luogo nel medesimo momento, ma anche a quella che può avvenire in momenti, appunto, diversi.

 

                                       

V. A. Poso. La particolare delicatezza di questa materia emerge anche dalla necessità di indicare, nei diversi contratti, i costi della sicurezza del lavoro, che devono essere congrui, anche con divieto di procedere al ribasso. Mi riferisco alle prescrizioni contenute nei commi 5 e 6 dell’art. 26.

 

C. Scognamiglio. È così. Il 5° co., in primo luogo, impone che nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione vengano specificamente indicati, a pena di nullità ai sensi dell’articolo 1418 c.c., i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni. E tali costi – secondo la medesima norma – non sono soggetti, appunto, a ribasso.

                                 

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V. A. Poso. Veniamo, ora, all’art. 26, comma 4, oggetto di nostro specifico interesse. Innanzitutto, il primo cpv, che nella prima parte conferma le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio una breve rassegna su questo punto, evidenziando il fondamento di questa disciplina.

C. Scognamiglio. L’art. 26 co. 4, in effetti, nel primo capoverso, fa salve le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Si pensi, in particolare, all’art. 29, co. 2, d. lgs. n. 276/2003 che prevede, appunto, la responsabilità solidale del committente nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto, relativamente ai trattamenti retributivi e contributivi dovuti dall’appaltatore.

Si concorda nel ritenere che il tenore letterale e la stessa ratio della norma siano diretti ad incentivare ed indurre il committente a scegliere quali appaltatori imprenditori affidabili per evitare fenomeni, anche di dissociazione tra titolarità del contratto e utilizzazione della prestazione lavorativa che andrebbero a discapito del lavoratore. La solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, esonerando il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice.

 Scopo della norma è, dunque, quello di garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili ed evitando, in questo modo, che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale.

 La stessa Corte Costituzionale ha individuato la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente nel tentativo di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto. E tale ratio, secondo la Corte, non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell’art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento (Corte Costituzionale, n. 254/2017).

Ricordo, poi, che si tratta di una responsabilità di tipo legale che sorge, indipendentemente dal dolo o dalla colpa, al verificarsi delle condizioni poste dalla norma, e, dunque, a fronte dell’esistenza di un rapporto contrattuale riconducibile all’ambito di operatività della norma stessa e dell’inadempimento da parte del datore di lavoro dei suoi obblighi verso il lavoratore (Cass. n. 24609/2023).Presupposto soggettivo della responsabilità solidale ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 è che il committente eserciti attività d’impresa ovvero, quale datore di lavoro, si serva delle prestazioni rese dai dipendenti dell’appaltatore per realizzare l’oggetto della propria attività istituzionale – prendendo parte al processo di decentramento produttivo del servizio -, restando escluso dal campo di applicazione della norma (ai sensi del comma 3-ter del citato art. 29) il committente persona fisica che non eserciti attività d’impresa o professionale (Cass. n. 19514/2023).                                     

 

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V. A. Poso. Con la seconda parte del primo cpv. del comma 4 dell’art. 26 si entra nel merito della questione di nostro interesse: «…l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA)».

Chiedo, in particolare, a Patrizia Tullini di illustrare questo punto, con riferimento al c.d. danno differenziale e ai criteri di quantificazione dello stesso, evidenziando, pure, il fondamento di questa disciplina.

 

P. Tullini. Secondo l’art. 26, comma 4, T.U. del 2008 il Committente e i soggetti affidatari rispondono in solido, nei confronti dei lavoratori utilizzati nei processi di esternalizzazione produttiva, per il risarcimento di tutti i danni che non siano stati indennizzati dal competente ente assicurativo previdenziale (INAIL e, in precedenza, IPSEMA). L’introduzione del vincolo solidale avrebbe dovuto costituire un ulteriore passo verso il completamento del complessivo regime di tutela dei c.d. lavoratori indiretti, a partire dall’ipotesi prevista dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 relativa alla solidarietà passiva per l’omesso pagamento dei trattamenti retributivi, contributivi e assicurativi. In passato, un significativo rafforzamento della responsabilità solidale nelle filiere di appalto era stato attuato dal c.d. Decreto Bersani (art. 35, comma 34, d.l. n. 223/2006, conv. in l. n. 248/2006), attraverso l’estensione della garanzia al mancato versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assistenziali dei dipendenti dell’appaltatore, ma poi il progetto legislativo aveva subìto una battuta d’arresto con l’abrogazione di tale disciplina ex d.l. 97/2008 (conv. in l. 129/2008).

Allo stato, il regime della responsabilità solidale si presenta frammentato e privo della necessaria chiarezza. Del resto, anche il dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 soffre di limitazioni applicative, sul piano soggettivo e oggettivo, talvolta poco comprensibili o poco giustificabili.

Anzitutto la solidarietà per il risarcimento dei danni vincola testualmente solo il committente che rivesta la qualifica di imprenditore, restando esonerati (oltre ai soggetti pubblici) i datori non imprenditori (mentre, per le omissioni retributive e contributive, la garanzia ex art. 29, comma 3-ter, d.lgs. n. 276/2003 è esclusa solo per i committenti-persone fisiche che non esercitino attività d’impresa o professionale). Nulla specifica la disposizione del T.U. 2008 circa la qualifica degli appaltatori e subappaltatori co-obbligati solidali. Si aggiunga che la stessa norma si riferisce espressamente solo al caso dell’appalto o subappalto, trascurando altri tipi negoziali elencati dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 e gli schemi contrattuali, anche atipici, che regolano i processi di esternalizzazione. Ma qui, forse, ragioni sistematiche e simmetria interpretativa potrebbero supplire alla scarsa attenzione legislativa.

Un’altra trascuratezza riguarda l’esclusione del lavoratore autonomo dall’applicazione della garanzia per i danni – sebbene il contratto d’opera sia menzionato persino nella rubrica dell’art. 26, T.U. 2008 – in difformità rispetto a quanto stabilito per i compensi e gli obblighi contributivi ai quali è applicabile la garanzia solidale del Committente ex art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/20023 (cfr. art. 9, d.l. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013).

                                      

 

V. A. Poso. Queste osservazioni di Patrizia Tullini sono condivise?

 

C. Scognamiglio. Condivido la ricostruzione svolta in merito al regime attuale e alle sue lacune in termini di chiarezza e omogeneità.

Aggiungo solo che, per calcolare l’impegno economico del datore di lavoro danneggiante e degli altri soggetti solidamente responsabili verso il lavoratore, il 4°co. impone il confronto tra le due entità economiche di danno (“civile” e “previdenziale”) in quanto il residuo debito deve corrisponde all’importo che non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL, cioè al cd. danno “differenziale”; quest’ultimo, ovviamente, esiste solo se il “danno civile concretamente risarcibile” (cioè, tenuto anche conto della riduzione dovuta all’eventuale concorso di colpa) risulti di importo maggiore di quello “previdenziale”.

                                    

V. A. Poso. Siamo arrivati alla parte della disposizione normativa oggetto della richiesta referendaria, ultimo cpv. del comma 4 dell’art. 26:« Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». L’esonero dalla responsabilità del committente è, quindi, limitata solo a questi specifici rischi. Vi chiedo di individuare questi rischi specifici oggetto di esonero.

 

C. Scognamiglio. La previsione, sebbene appaia formalmente semplice, è, invero, certamente complessa nel suo divenire norma concreta. Non vi, è infatti, alcuna definizione, nel Testo Unico, dei ‘rischi specifici’.

Il medesimo d.lgs. 81/2008, all’art. 2, dedicato alle ‘definizioni’, definisce ‘rischio’ la ‘probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione’ e ‘pericolo’ come la ‘proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni’.

Si potrebbe allora affermare che i rischi specifici (o propri o esclusivi) sono quelli che derivano dalla natura dell’attività svolta dalla singola impresa e che ne rimangono esclusivi e governabili nonostante la sinergia lavorativa con altre imprese.

 I rischi interferenziali, invece, sono quelli nuovi e diversi rispetto ai primi e che, operando in sinergia con gli stessi, li aumentano in apprezzabile misura, rendendoli non più totalmente governabili dalla singola impresa. Pertanto, il rischio interferenziale non è la mera somma dei singoli rischi ‘propri’ delle diverse imprese che lavorano, nella stessa area anche in tempi diversi, per concorrere al completamento dell’opera, bensì è il rischio, diverso o maggiore, che deriva ad un datore di lavoro dall’attività svolta da altri, con tempi e modalità che il primo ignora o di cui non ha piena conoscenza.

 

P. Tullini. Concordo sul fatto che, mancando una definizione, seppure orientativa, di rischio interferenziale e di rischio specifico, la questione applicativa risulta davvero complessa. Ed è proprio ai fini dell’operatività dell’ultimo cpv. dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 che la distinzione tra le due nozioni solleva le maggiori incertezze poiché incide sull’individuazione dell’oggetto e del perimetro della garanzia solidale.

Almeno in apparenza si tratta d’una garanzia ampia ed inclusiva in quanto riferibile – come recita l’incipit del comma 4 – a «tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dell’appaltatore o subappaltatore, non risulti indennizzato» dall’ente previdenziale-assicurativo. Ma poi il disposto interessato dal quesito referendario introduce una precisazione che ne circoscrive fortemente l’operatività considerando solo i «danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». Dunque, la tutela risarcitoria solidale sarebbe limitata ai danni derivanti dall’interferenza pericolosa tra le organizzazioni e le attività svolte in affidamento: solo in quest’ipotesi il Committente sarebbe tenuto a risponderne.

È pur vero che i danni risarcibili potrebbero risultare in concreto abbastanza ridotti, tenuto conto che il principio di automaticità delle prestazioni assicurative riconosce il diritto all’indennizzo per infortunio e malattia professionale a prescindere dal versamento dei premi da parte del datore di lavoro, nonché a favore dei lavoratori irregolari. I danni per i quali opera il vincolo solidale dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 sarebbero solo quelli estranei al sistema previdenziale pubblico: i danni differenziali rispetto all’ammontare dell’indennizzo e quelli c.d. complementari, che sono a priori esclusi dall’assicurazione obbligatoria INAIL.

Resta, tuttavia, una palese discrasia interna alla norma. Non a caso il limite della garanzia solidale non era previsto in origine, ma risale ad una successiva modifica apportata dalla l. n. 296/2006 (art. 1, comma 910) dapprima al testo dell’art. 7, c. 3-bis, d. lgs. n. 626/1994 e poi al T.U. 2008. Con qualche ragione, diversi interpreti ritengono che il cpv. dell’art. 26, comma 4, rappresenti una negazione o una violazione dei principi direttivi posti dalla l-delega n. 123/2007 per la redazione del T.U. 2008: questa, infatti, prevedeva espressamente il rafforzamento normativo e il «miglioramento dell’efficacia» della responsabilità solidale tra Committente e appaltatori in materia di sicurezza sul lavoro (cfr. art. 1, comma 2, lett. s).

In breve, nonostante l’evoluzione del quadro legislativo, risulterebbe ancora salvaguardato il riparto delle aree di responsabilità già fissato dall’art. 5, D.P.R. n. 547/1955 che escludeva ogni responsabilità del Committente, sul piano prevenzionistico e risarcitorio, per i rischi derivanti dall’attività propria del lavoratore autonomo e dell’appaltatore. Riproponendo o comunque coltivando questa antica impostazione, la questione si sposta lungo il crinale mobile e sfuggente – come insegnano i giudici penali e del lavoro – che separa il rischio “interferenziale” e quello “specifico” dell’appaltatore, con tutte le incertezze connesse all’utilizzo di nozioni che – non solo sono prive di una definizione giuridica, ma – risultano necessariamente dinamiche e aperte allo sviluppo continuo dei modelli organizzativi e imprenditoriali.

                                   

V. A. Poso. Ritenete la disposizione normativa ora vigente corretta e coerente con il sistema degli appalti e con la regola della solidarietà che sembra assumere natura generale applicandosi anche nel caso dei contratti di sub-fornitura e in tutte le ipotesi di decentramento produttivo?

 

P. Tullini. A prescindere dalle evidenti disarmonie nel dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008, i limiti soggettivi e oggettivi posti alla solidarietà passiva del Committente (ed eventuali subappaltatori) si pongono evidentemente in contraddizione con la disciplina dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. Non è un caso che la norma in materia di sicurezza si apra con una clausola di salvaguardia («ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi …») che sottolinea l’intenzione (poi smentita dall’ultimo cpv.) di aggiungere un ulteriore ed essenziale tassello ad un sistema di garanzie sorrette dalla medesima ratio legis.

Di più, l’obbligazione solidale prevista per la filiera degli appalti è stata progressivamente estesa anche alla somministrazione di personale (cfr. art. 35, d. lgs. n. 81/2025): ovunque si realizzi l’acquisizione di lavoro indiretto o una dissociazione tra il datore di lavoro formale e l’utilizzatore delle prestazioni erogate dai lavoratori.

 Ma soprattutto, va ricordata la giurisprudenza della Consulta che – nel confermare l’applicazione dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 nell’ipotesi del contratto di subfornitura regolato da l. n. 192/1998 – ha offerto una lettura costituzionalmente orientata di tale garanzia, precisando che la ratio – quella di evitare che i meccanismi di decentramento organizzativo si risolvano in danno dei lavoratori – non ammette esclusioni, che sarebbero invece in contrasto con l’art. 3 Cost. «atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento» (C. cost. n. 254/2017). In sostanza, secondo la Corte costituzionale la garanzia solidale rappresenta una sorta di regola di carattere generale che non tollera esclusioni ingiustificate ed è applicabile in ogni processo di decentramento ed esternalizzazione produttiva.

 

C. Scognamiglio. Esaminando il quesito all’interno del sistema degli appalti, come suggerisce lo stesso quesito, le valutazioni appena svolte sono senz’altro condivisibili.

Non si può tuttavia negare che, dal punto di vista del diritto ‘generale’ della responsabilità civile, la norma, così come formulata, abbia una sua intrinseca razionalità, proprio perché esclude il vincolo della responsabilità solidale con riferimento ai (soli) rischi specifici propri dell’impresa appaltatrice, quanto ai quali, dunque, il committente non potrebbe, almeno in linea di principio, operare secondo il modello ideale del cheapest cost avoider. Potrebbe allora dirsi che la risposta al quesito dipenda dall’alternativa tra l’applicazione di principi del ‘diritto primo’ della responsabilità civile o del ‘diritto secondo’, per riprendere una nota formulazione dottrinale.

 

V. A. Poso. A Patrizia Tullini chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alla disposizione normativa oggetto di referendum.

P. Tullini. Salvo qualche eccezione, la dottrina giuslavorista ha (inspiegabilmente) espresso un giudizio negativo rispetto alla proposta di abrogazione referendaria. L’argomento privilegiato è quello dell’ingiusta penalizzazione del Committente di un appalto genuino che, nel caso si realizzasse l’effetto abrogativo del referendum, si troverebbe esposto ad una responsabilità di tipo oggettivo per i rischi con non appartengono al ‘core’ della sua impresa. Si aggiunge che sarebbe del tutto irragionevole accollare al Committente l’onere di valutare la capacità tecnica e la sicurezza dell’organizzazione di un’impresa appartenente ad un diverso settore merceologico.

Ancora una volta, l’effettività della tutela dei lavoratori in appalto viene spostata in capo agli organi pubblici di vigilanza o, al limite, si sollecita l’introduzione di un sistema di qualificazione delle imprese che potrebbe risolvere ogni problema a monte.

Mi pare, tuttavia, che queste posizioni dottrinali evidenzino diversi equivoci. Anzitutto, la regola della responsabilità solidale non è collegata ad una fattispecie di esternalizzazione illecita e non genuina, come si desume tanto dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 quanto dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. La giurisprudenza costituzionale ha chiarito esattamente la finalità della garanzia che non assume la natura di un rimedio o una sanzione per l’ipotesi di appalto fittizio, ma è una tecnica giuridica di carattere generale (C. cost. n. 254/2017, pt. 5).

In secondo luogo, se la responsabilità solidale riguardasse solo i danni derivanti dall’omissione dei doveri tipici del Committente nella gestione dei rischi interferenziali (cioè, gli obblighi di informazione, cooperazione, coordinamento della sicurezza), l’art. 26, comma 4, T.U. 2008 risulterebbe una norma del tutto superflua. Non occorre, infatti, una disposizione ad hoc per stabilire un vincolo di solidarietà risarcitoria che deriverebbe comunque dalla violazione di obblighi connessi alla posizione di garanzia assunta ex lege dal Committente.

Appare poco coerente anche alludere ad una responsabilità di tipo oggettivo irragionevolmente accollata al Committente per i danni non indennizzati dall’INAIL. Si tratta di un’obiezione molto frequente in materia di sicurezza sul lavoro, allorché si lamenta per lo più che la responsabilità per i danni alla persona del lavoratore non potrebbero essere imputati senza la colpa del datore di lavoro. In realtà, nell’ipotesi dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 – come in quella speculare dell’art. 29, comma 2, d. lgs. 276/2003, in relazione alla quale peraltro non ci si interroga sulla natura oggettiva o meno della responsabilità – il legislatore ha introdotto un meccanismo di rafforzamento della responsabilità per i danni sopportati dai lavoratori coinvolti nell’appalto, al fine di dare una specifica tutela nei fenomeni economici d’integrazione verticale delle imprese e nelle operazioni negoziali che realizzano l’acquisizione di lavoro indiretto da parte del Committente.

                                   

V. A. Poso. Avete qualcosa da aggiungere a quanto esposto da Patrizia Tullini?

 

C. Scognamiglio. Richiamo quanto ho accennato poc’anzi circa la possibilità che un’opinione contraria all’abrogazione proposta dal referendum venga motivata sulla base di argomenti attenti ad esigenze di razionale allocazione di costi e di rischi in capo all’imprenditore committente, secondo un’impostazione ispirata al metodo interpretativo dell’analisi economica del diritto.

                                     

A. Morrone. Personalmente condivido l’interpretazione di Patrizia Tullini: la fattispecie va intesa in senso generale e non limitata solo agli illeciti; e, quindi, nella prospettiva dei promotori, il ripristino della piena responsabilità solidale è coerente con tale assunto.

                                      

V. A. Poso. Rivolgo la stessa domanda a Claudio Scognamiglio, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito della disposizione normativa oggetto di referendum.

 

C. Scognamiglio. La norma è stata in effetti protagonista di perplessità interpretative anche nell’ambito della giurisprudenza che ha visto contrapposte differenti posizioni; da un lato, vi è stata la lettura che ha ritenuto la limitata responsabilità solidale una mera conseguenza dell’attribuzione dei compiti di cooperazione, coordinamento contenuti nella prima parte della norma e, di conseguenza, ha circoscritto l’ambito di applicazione ai casi di violazione di tali obblighi e in caso di colpa del committente.

Una diversa lettura ha invece interpretato la responsabilità del committente come avente comunque carattere oggettivo.

Alcune pronunce della Corte di Cassazione penale hanno ritenuto che l’esclusione relativa ai rischi specifici fosse riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale – generalmente mancante in chi opera in settori diversi – nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine (Cass. pen. n. 32204/2009, Cass. pen. n. 36857/2009)

Secondo Cass. pen. n. 6857/2009 un’esclusione di responsabilità era configurabile qualora l’appaltatore avesse seguito lavori determinati e circoscritti, in piena e assoluta autonomia. È stato ritenuto, quindi, che il committente risponda soltanto ove il rischio sia palese e percepibile (Cass. n. 3784/2009), quando non abbia esercitato il necessario controllo consentendo l’inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, e in mancanza di idonee misure di prevenzione.

La Corte di Cassazione Sez. Civile (n. 23843/2024) ha recentemente evidenziato che, in linea generale, deve rilevarsi che la responsabilità dell’appaltatore non solo non esclude quella del committente (Cass. n. 25758/2013), ma che, anzi, quest’ultima è configurabile quando vi sia stata in concreto assunzione di una posizione di garanzia e comunque, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d’appalto (Cass. pen. 12348 /2008).

La Corte, peraltro, aveva ritenuto (Cass. pen. n. 7188/2018) che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente, anche nel caso di subappalto, è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l’infortunio, sia per la scelta dell’impresa sia in caso di omesso controllo dell’adozione, da parte dell’appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Si è anche affermato (Cass. pen. 28728/2020) che, in materia di infortuni sul lavoro, in caso di lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto, sussiste la responsabilità del committente che, pur non ingerendosi nella esecuzione dei lavori, abbia omesso di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati.

Aggiungo, poi, che Cass. n. 2991/2023 ha affermato che, in tema di appalto, “non è configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e, cioè, per il solo fatto di aver affidato determinati lavori ovvero un servizio a un’impresa appaltatrice”. La responsabilità per la violazione dell’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori si estende, infatti, al committente solo se lo stesso si sia reso garante della vigilanza delle misure da adottare in tema di sicurezza sul lavoro e si sia riservato poteri tecnico-organizzativi rispetto all’opera da realizzare.

                                  

 

 

V. A. Poso. Hanno qualcosa da aggiungere, gli altri interlocutori, alla rassegna giurisprudenziale fatta da C. Scognamiglio?

 

A. Morrone. Se come penso, leggendo le risposte di Claudio Scognamiglio, la giurisprudenza ha applicato la disposizione vigente nel senso di ricercare una ratio alla fattispecie normativa, la domanda che ci si potrebbe fare è se questa giurisprudenza citata possa incidere sulla disciplina risultante dall’esito positivo della consultazione referendaria che, come sappiamo, tende ad allargare l’area della responsabilità solidale. Se il quesito fosse approvato, quella giurisprudenza avrebbe ancora un senso? O, viceversa, la nuova disciplina esitata dalla consultazione permetterebbe nuovi orientamenti? Mi pare che questa sia l’alternativa e che la risposta vada verso la seconda soluzione.

 

V. A. Poso. Come giudicate, nel merito politico e costituzionale, la richiesta referendaria sulla responsabilità per danni del committente in materia infortunistica? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere sicuro. Viene quindi auspicata l’estensione della responsabilità risarcitoria del committente, per assicurare una maggiore tutela dei lavoratori che deriva dalla garanzia dell’integrale copertura dei danni subiti, tanto più rilevante in caso di imprese appaltatrici di dubbia solidità o che cessino la propria attività e per evitare che, con interpretazioni riduttive della norma vigente, il committente sia sollevato dagli oneri di predisposizione delle misure di cooperazione e coordinamento in materia di salute e sicurezza previsti dall’art. 26.

Condividete la prospettazione referendaria?

 

A. Morrone. Personalmente penso che la risposta dipenda da una scelta di politica legislativa e che, quindi, non ci sia una soluzione costituzionalmente necessaria. Siamo nell’ambito della discrezionalità spettante agli attori sociali e politici e al legislatore. Penso che l’alternativa posta da Claudio Scognamiglio – quale diritto applicare in materia: quello “primario” o quello “secondario”? – sia perciò quella corretta per chi, consapevolmente, riterrà di partecipare al voto e di esprimersi nel merito della domanda promossa dalla Cgil. La quale, va detto, ha in sé molta “ideologia”, accentuata dall’esigenza di semplificazione mediatica, inevitabilmente connessa a una consultazione referendaria, nella quale le alternative sono solo due (o tre per chi si astiene). Il fatto che andrebbe indagato, da un punto di vista generale, è il significato (politico e costituzionale) di un referendum abrogativo (questo e tutti gli altri) promosso da un sindacato confederale dei prestatori del lavoro. Per la seconda volta dopo il 2016, la Cgil ha intrapreso, da sola, questa iniziativa, senza le altre confederazioni di categoria. Per la seconda volta lo ha fatto per ragioni politiche, che eccedono quelle sindacali.

Non si capisce, infatti, per quale motivo un sindacato debba ricorrere al referendum quando istituzionalmente dovrebbe avere a disposizione gli strumenti per negoziare con la controparte datoriale o col governo le linee di politica del lavoro che andrebbero perseguite nella legislazione. Che anche un grande sindacato (dopo la vicenda delle “piccole sigle” che avevano agito da protagoniste nella storia dei referendum abrogativi, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo Millennio) sia legittimato a proporre richieste referendarie, ovviamente, non è impedito dalla Costituzione, e la prassi lo ha ormai ampiamente confermato.

Il punto resta, però. Come gli osservatori attenti sanno bene, il referendum abrogativo è uno strumento che può fare molte cose – quando rispetta i crismi costituzionali – ma non tutto. Anzi la “forza normativa” di un referendum abrogativo, quale che sia (e sappiamo che non ci sono opinioni concordi sul punto), è condizionata dal “seguito”. Per usare una metafora calcistica, dopo che il popolo s’è pronunciato (e, questo, accade sempre), “la palla” torna nelle mani dei protagonisti, le parti sociali, il governo, il parlamento. In questo caso specifico, l’esito normativo è l’ampliamento della responsabilità. Le sue conseguenze sul sistema delle relazioni industriali, in mancanza di un chiarimento politico-legislativo, saranno rimesse alla prassi delle relazioni industriali, e alla giurisprudenza che si muoverà con la solita audacia nelle maglie delle norme vigenti, anche approfittando dell’inerzia del legislatore.

                            

V. A. Poso. I dati degli infortuni mortali che abbiamo registrato nell’anno 2024 e nei primi mesi di quest’anno sono davvero allarmanti. E non ci sono solo questi. L’abrogazione proposta potrebbe incentivare le imprese committenti ad assumere maggiore consapevolezza, e responsabilità, nella costruzione delle catene degli appalti.

 

C. Scognamiglio. Purtroppo, sì. Da un punto di vista generale, ricordo infatti che il Rapporto annuale dell’attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro per l’anno 2024, per quanto riguarda le violazioni in materia di prevenzione, ha rilevato che il sensibile aumento degli accertamenti in materia ha dato luogo ad un corrispondente aumento degli illeciti accertati. Sono state infatti accertate n. 83.330 violazioni in materia di salute e sicurezza (+127% rispetto alle 36.680 del 2023). Il Rapporto qualifica come notevole anche l’incremento (+34%) dei provvedimenti di sospensione delle attività imprenditoriali, pari a 15.002 (massimo storico) a fronte degli 11.174 dell’anno precedente, di cui circa il 37% (5.601) determinati da gravi violazioni in materia di sicurezza. Non è scontato che, con l’abrogazione, il lavoro – parafrasando lo slogan della Cgil – diventi più sicuro. Quello che è certo è che, in caso di vittoria, i confini degli obblighi di vigilanza e di controllo in capo ai committenti, seppure in via indiretta, sarebbero riscritti ed ampliati, con un correlativo incremento dei costi, anche organizzativi ed ‘informativi’, a loro carico. È evidente, infatti, che al committente sarebbe richiesta una conoscenza maggiormente dettagliata dell’organizzazione, e dei rischi propri degli appaltatori e dei subappaltatori.

 

P. Tullini. Dall’eventuale abrogazione referendaria non c’è da attendersi un immediato ed automatico abbassamento dei tassi di infortuni e di malattie professionali. Va considerata la complessità dei processi economici di esternalizzazione produttiva, i quali intrecciano una pluralità di fattori che possono incidere sulla prevenzione e sulla sicurezza dei lavoratori: i nuovi business models, le trasformazioni del lavoro, gli sviluppi tecnologici e l’uso di sistemi automatizzati, le tipologie dei c.d. rischi nuovi ed emergenti, la porosità tra ambiente aziendale e ambiente esterno, l’estensione crescente di attività produttive potenzialmente rischiose ma su cui ancora mancano evidenze scientifiche consolidate.

Ci sono tuttavia fondate ragioni per ritenere che l’ampliamento della garanzia solidale per i danni alla persona potrebbe accrescere la consapevolezza e la responsabilità sociale (non solo giuridica) dei Committenti, sollecitando l’adozione di modelli organizzativi e produttivi più sorvegliati e attenti alle esigenze di protezione dei lavoratori utilizzati.

La risposta sul piano della responsabilità civile potrebbe rivelarsi più efficace sotto il profilo della prevenzione generale rispetto alla minaccia penale e della responsabilità personale del Committente, che resta comunque una risposta sussidiaria dell’ordinamento giuridico.                         

 

A. Morrone. Condivido le valutazioni di Patrizia Tullini e di Claudio Scognamiglio. Non penso che alla richiesta prescrittiva di una maggiore consapevolezza dei committenti corrisponderà, ahinoi, una riduzione degli infortuni sul lavoro. Il problema è l’organizzazione della sicurezza sul lavoro e, probabilmente, alla luce dei dati, l’effettiva applicazione delle regole, anche solo quelle, pure molto serie, esistenti, che, nella maggior parte dei casi sono ignorate, male eseguite, non applicate. L’effettività delle norme sulla sicurezza dipende da molti fattori. Il referendum non li affronta e non li può risolvere.

                                      

 

V. A. Poso. L’abrogazione proposta consentirebbe un allineamento rispetto alle norme che regolano in generale la responsabilità del committente per le retribuzioni e gli oneri previdenziali, che sono estesi a tutti i casi di appalto e subappalto. La responsabilità solidale diventa, quindi, la regola generale che impedisce la limitazione delle tutele sul lavoro in tutte le ipotesi di decentramento produttivo che sono fisiologiche nel nostro sistema.

È, questa, l’opinione espressa dai promotori del referendum, che, a mio avviso, può essere condivisa.

 

C. Scognamiglio. In realtà, già era così. Basti pensare che, come è stato ricordato poco fa, la Corte Costituzionale, nella già citata decisione n. 254/2017, aveva sottolineato che la responsabilità solidale del committente (in quel caso riferita ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali) ha natura generale. E, del resto, il referendum riguarda una disposizione che non era presente nell’originaria formulazione della norma.

 

A. Morrone. In effetti, come è stato chiarito dalla sentenza che dichiara ammissibile il referendum, l’esito positivo dell’abrogazione popolare sarebbe proprio quello di portare in vita una disposizione abrogata dalla legislazione vigente. Quindi, proprio quell’estensione-generalizzazione della responsabilità che già l’ordinamento conosceva, e che è stata progressivamente manipolata e ridotta dalle norme successive.

                                      

V. A. Poso. Passo ad illustrare, anche a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 26,comma 4, ultimo cpv., d.lgs. n. 81/2008, come sopra meglio indicato. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: Abrogazione”.

Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione della rubrica dell’articolo in cui è contenuto il comma di cui si chiede l’abrogazione: “ Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.

Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre di materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.

Merita di essere rilevato che il quesito ammesso risultava già integrato, al momento della proposizione, con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo ora vigente.

Mi sembra una ordinanza chiara nell’esposizione dei presupposti di legge e della specifica vicenda referendaria, del tutto condivisibile.

                                   

A. Morrone. L’ordinanza 12 dicembre 2024, sul quesito di cui discorriamo, è molto asciutta e lineare nel suo svolgimento. Ricordo che l’Ufficio Centrale per il Referendum ha il compito di verificare la legittimità di una richiesta referendaria sotto il profilo della esistenza dei presupposti (numero minimo delle firme o consistenza delle 5 delibere regionali necessarie a sostenerla) e di quello della “legge vigente”. Nel caso in cui, nella medesima tornata, esperite le verifiche di cui s’è detto, risultasse la compresenza di due o più richieste che rivelino “uniformità o analogia di materia” (art. 32, l. n. 352/1970), detto Ufficio procede alla “concentrazione” delle richieste medesime in un unico quesito. Ciò accade quando, nonostante la diversità delle richieste di referendum depositate sussista la sostanziale identità del contenuto normativo. L’esame è quindi prevalentemente materiale e non riguarda la forma, se non come mezzo al fine.

 È un compito delicato che ha avuto modo, pochissime volte, di essere svolto: il caso più noto riguardava i tre quesiti in materia di abrogazione della legislazione sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 (la cui concentrazione, tuttavia, non venne fatta, proprio perché, nonostante l’identità formale della legge 194/1978 interessata, i quesiti – totale, massimale e minimale – non avevano il medesimo oggetto e il medesimo fine (Ufficio Centrale per il Referendum: ordinanza 15 dicembre 1980).

Gli unici casi di concentrazione hanno riguardato proprio, e all’opposto, due quesiti identici formalmente e sostanzialmente (i due quesiti per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti e sulla legge elettorale della Camera dei deputati, presentati nel 1999, anche da due Comitati diversi: cfr. ordinanze del 7 dicembre 1999). Se si leggono i precedenti (oltre a quelli ricordati, cfr. ordd. nn. 13 dicembre 1986; 10 dicembre 2004; 7 dicembre 2010), ci si avvede come, nel nostro caso, la precisazione contenuta nell’ordinanza di cui discorriamo sia del tutto pleonastica. A parte l’identità del soggetto presentatore (che non rileva affatto), i quattro quesiti in materia di tutela del lavoro della Cgil sono diversi sia formalmente sia materialmente. Il problema della concentrazione non si doveva porre neppure per inciso.                               

                                    

 

V. A. Poso. Con la sentenza n. 15 del 7 febbraio 2025,la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della disposizione normativa in parte qua.

Questa è l’argomentazione centrale della Corte Costituzionale: «Dalla formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta. Con tale esito è coerente la struttura del quesito, che si rivela idonea a conseguire la finalità descritta. Abrogata la limitazione che il secondo periodo oggi prevede, il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria: l’imprenditore committente risponde in solido con appaltatori e subappaltatori per tutti i danni che l’INAIL o l’IPSEMA non devono indennizzare, a prescindere dall’eventuale inerenza di tali danni a rischi tipici delle attività degli appaltatori e subappaltatori. La previsione dettata dall’art. 26, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 acquista così una portata onnicomprensiva e, per effetto dell’abrogazione referendaria, trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».

Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?

 

A. Morrone. Tutti e quattro i quesiti in materia di “lavoro dignitoso” presentato dalla Cgil si caratterizzano per la peculiare portata normativa in senso “positivo”. Essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili.

 Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.

 Se si legge la sent. n. 15/2025, si capisce che la regolamentazione oggi vigente (d.lgs. n. 81/2008), oggetto di abrogazione popolare, ha limitato la responsabilità solidale, prevista “senza alcuna deroga” dalla normativa precedente (art. 1, c. 910, l. n. 296/2006). In motivazione è detto apertamente che in base alla “formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta”.

Secondo la Corte il quesito permetterebbe di conseguire questo risultato: “abrogata la limitazione” in vigore, “il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria”, così trovando “compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce” (corsivi enfatizzati).

La Corte ci tiene a evidenziare, in proposito, l’alternativa “netta” sottoposta all’elettore: “il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici”.

 Queste parole, in definitiva, equivalgono a sostenere che dall’abrogazione popolare consegue il “ripristino” della vigenza delle norme, che le limitazioni positive, sottoposte a referendum abrogativo, avevano reso inefficaci.

  

P. Tullini. Con motivazione asciutta e lucida, la pronuncia della Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum contiene passaggi davvero significativi (e persino espliciti) in merito alla ricostruzione delle finalità della proposta e degli effetti derivanti dall’eventuale abrogazione.

Si sottolinea che i vincoli posti dalla normativa internazionale (ed europea: cfr. spec. direttiva-quadro 1989/391/CEE) «non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente», che è prevista invece dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 in conseguenza dei ripensamenti e delle correzioni del testo originario.

Il quesito referendario «tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità» solidale del Committente (sentenza n. 27 del 2017), rivelando «una matrice razionalmente unitaria»: con «chiarezza e semplicità» emerge l’obiettivo «inequivocabile» di rafforzare (e restaurare) la responsabilità per i danni arrecati ai lavoratori nella catena di appalti e non indennizzati dall’INAIL, ripristinando l’originaria ampiezza della tutela risarcitoria nei termini antecedenti alla modifica della l. n. 296/2006.

Attraverso l’eventuale effetto giuridico dell’abrogazione, «il sistema si ricompone in modo armonico» e coerente alla finalità referendaria. La previsione dell’art. 26, comma 4, primo periodo, T.U. 2008 potrebbe nuovamente acquistare una portata onnicomprensiva con riguardo alla garanzia per «tutti i danni »non indennizzati, senza rotture né sconvolgimenti sistematici, in quanto «trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».

 

C. Scognamiglio. Più che attesa, direi che la pronuncia era prevedibile. Come ha precisato la Corte Costituzionale nelle considerazioni in diritto, la responsabilità solidale era già prevista, senza alcuna deroga, dall’art. 1, comma 910, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, che aveva introdotto un comma 3-bis nell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, per i danni non indennizzati dall’INAIL. È poi obiettivamente incontestabile che la finalità sia quella di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati.                             

 

                                   

V. A. Poso. La Corte Costituzionale ( richiamando anche la sentenza n. 56 del 2022) ha ricordato, nelle sentenze pronunciate il 7 febbraio 2025 che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento” referendum ex se (v. sentenza n. 36 del 1997)».

Ritenete rispettato questo limite?

 

A. Morrone. Su questo punto la giurisprudenza costituzionale è molto oscillante e impossibile da riassumere, anche perché ondivaga e contraddittoria. Il principio generale è che il referendum sia diretto all’abrogazione totale o parziale di leggi e atti aventi forza di legge. Fuori quadro dovrebbe essere qualsiasi consultazione popolare che non avesse queste caratteristiche, senza necessariamente arrivare al “plebiscito” (la cui configurazione astratta è molto controversa), escludendo pure referendum “propositivi” (che, pure, sono molto ambigui: in che senso una domanda è “propositiva”?). Ma questo contenuto minimo costituzionale (la lettera dell’art. 75.2 Cost.) è stato riscritto in concreto dalla giurisprudenza. La più importante innovazione del diritto vivente è il “quesito manipolativo”, l’abrogazione di disposizioni finalizzata a modificare la legislazione vigente al fine di introdurre una disciplina diversa dalla precedente e in questo senso “nuova”.

 Del resto, il più attento costituzionalista dei fenomeni normativi aveva notato che anche soltanto “abrogare” implica “innovare”, perché l’abrogazione non equivale a un “non disporre” ma a un “disporre diversamente” (Vezio Crisafulli nelle sue Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1984). La giurisprudenza sui referendum in materia elettorale, dopo una iniziale e problematica chiusura (che non trova nessun appiglio nell’art. 75 Cost.) almeno nei confronti di referendum abrogativi “totali” (sent. n. 29/1987 sulla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura), aveva ritenuto ammissibili quesiti elettorali al ricorrere di alcune condizioni (sentt. nn. 47/1991 e 32/1993 poi sempre confermate in seguito): 1) che i quesiti fossero necessariamente “parziali”, ovvero su singole disposizioni o frammenti di disposizione (e quindi “manipolativi”); 2) che dall’abrogazione parziale o manipolativa conseguisse necessariamente una “normativa di risulta” di carattere “autoapplicativo” (che, nel caso, fosse sufficiente al rinnovo dell’organo la cui legge elettorale era interessata da una richiesta di abrogazione popolare).

 La conseguenza di questa giurisprudenza – estesa a tutti i quesiti parziali o “manipolativi” – è che il referendum da “abrogativo” è (pretoriamente) diventato necessariamente “propositivo”, almeno nel senso che l’abrogazione è in funzione della innovazione normativa. Chi chiede un referendum non vuole solo abolire una disciplina ma (soprattutto) sostituire quella abrogata con un’altra legislazione. Ecco, dunque: la principale responsabile della trasfigurazione del referendum, della sua originaria versione prescritta nell’art. 75 Cost., è stata la Consulta che, per evitare o limitare i referendum elettorali, ha finito per legittimare i referendum manipolativi diretti a introdurre norme mediante l’abrogazione di norme. Da qui la necessità di “correre ai ripari”, ossia la giurisprudenza successiva che esige che il referendum popolare non si trasformi in un “inammissibile” e “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Che il popolo sovrano non possa, mediante un referendum (abrogativo), farsi legislatore rappresentativo è scontato.

 Quale sia – una volta ammessi dal punto di vista della legittimità costituzionale quesiti parziali e manipolativi – il confine tra legislazione popolare e legislazione rappresentativa è impossibile da stabilire. O, meglio, dipende dalla giurisprudenza costituzionale e dalle sue volubili nuances. I precedenti ci consegnano degli indici sintomatici, spesso rivisti, aggiustati, modificati e, quindi, tutt’altro che sicuri. Tra questi il criterio della “assoluta” novità della “norma popolare” frutto del ritaglio referendario: assoluta rispetto all’ordinamento vigente e alle sue evoluzioni positive. Non rispetto al materiale normativo esistente nell’ordinamento.

Per ricordare il primo precedente, la sent. n. 36/1997, sul tetto alla pubblicità nelle trasmissioni della concessionaria pubblica “Rai-Tv”, l’esito del ritaglio di singole parole e dell’incollatura di frammenti superstiti, finiva per costruire una disposizione del tutto nuova ed estranea alla materia sulla quale si voleva intervenire con il quesito manipolativo. Lo stesso principio è stato confermato nella sentenza che ha dichiarato inammissibile il quesito presentato dalla Cgil nel 2016, diretto ad applicare la reintegra anche alle imprese commerciali con un numero di dipendenti superiore alle cinque unità, estendendo la norma prevista per le ben diverse imprese agricole (sent. n. 26/2017, che portò alla rinuncia della relatrice della causa Silvana Sciarra dal compito di scrivere la motivazione di inammissibilità, redatta da Giorgio Lattanzi).

Nel caso del referendum sulla responsabilità solidale del committente negli appalti, la sent. n. 15/2025 fa un’applicazione corretta dei precedenti. La manipolazione del quesito parziale non “taglia e cuce” frammenti di disposizioni al fine di creare ex novo una disciplina da applicare in luogo di quella sottoposta ad abrogazione popolare. L’obiettivo è, invece, riportare in vigore una disposizione pre-vigente, che le norme inserite nel quesito avevano a loro volta abrogato. Un ripristino o una reviviscenza di norme abrogate da norme abrogande, secondo lo schema classico tracciato da Salvatore Pugliatti nei suoi noti scritti in materia.

 

C. Scognamiglio. Per le considerazioni già svolte, ritengo che il limite evidenziato non possa essere considerato superato. Il referendum non introdurrebbe, infatti, e comunque, una nuova statuizione non ricavabile dall’ordinamento; piuttosto, e come si è detto, (ri)estenderebbe il campo di applicazione di una disciplina già presente, e consolidata, nell’ordinamento, pur dovendosi ribadire che la scelta di non estensione, destinata ad essere travolta da un’eventuale risposta affermativa al quesito, non è priva di una sua razionalità.

 

 V. A. Poso. Tenuto conto di quanto ha già illustrato nella precedente risposta Andrea Morrone, una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Qualcuno potrebbe sostenere che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999), con riferimento alla espansione della responsabilità solidale del committente. E tuttavia, come scrive la Corte: «Il quesito tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità dell’imprenditore committente (sentenza n. 27 del 2017) e rivela una matrice razionalmente unitaria. Il quesito, nel suo carattere meramente ablativo, tende, pertanto, a un esito lineare e pone al corpo elettorale un’alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici. All’elettore è così garantita quella scelta chiara e consapevole, che il giudizio di ammissibilità demandato a questa Corte è chiamato a salvaguardare (sentenza n. 51 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto)».

Sotto questo profilo, a giudizio dei giuslavoristi, risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?

 

C. Scognamiglio. A mio avviso, il quesito tende ad un esito netto e lineare, avendo una natura meramente ablativa; le conseguenze abrogative si concretizzerebbero in una situazione esattamente contraria (applicabilità della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza anche dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici) a quella prevista dalla norma oggetto del referendum (esclusione della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici).                        

                               

 

V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); gli obblighi internazionali non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente, che la disciplina vigente racchiude; tantomeno risultano profili attinenti a disposizioni costituzionalmente necessarie o a contenuto costituzionalmente vincolato; sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.

A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco non solo alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione, già presa in considerazione in qualche risposta precedente.

 

A. Morrone. La motivazione asciutta della sent. n. 15/2025 mi pare condivisibile in sé e in rapporto ai precedenti. Si tratta dell’applicazione lineare di una giurisprudenza che, almeno sul punto, può ritenersi costante. La Corte si è concentrata soprattutto sulla questione più delicata della “manipolatività” ammissibile del quesito, su cui rimando alle considerazioni fatte in precedenza. Sugli obblighi internazionali mi limito solo a notare che l’interpretazione dell’art. 75 Cost. (il divieto di referendum abrogativi di leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, la cui ratio stava e sta nella natura solo “formale” di queste leggi, che non innovano ma si limitano a rimuovere un ostacolo affinché il Capo dello Stato e, quindi, il governo possa procedere alla ratifica dei trattati previsti dall’art. 80 Cost.) è stato interpretato estensivamente fin dalla sent. n. 16/1978 (allargando il divieto, ad esempio, anche alle leggi di “esecuzione” degli obblighi internazionali, compresi i Trattati europei).

Il punto è che la linea di faglia riguarda – almeno “così è se vi pare”, a leggere i controversi precedenti – i referendum abrogativi che mettano in gioco la responsabilità internazionale dello Stato. In fondo, come lo Stato che ha sottoscritto un trattato internazionale (in forma semplificata o mediante ratifica) non può venir meno all’obbligo internazionale così assunto (anche soltanto in rapporto all’esigenza di trasfondere nell’ordinamento positivo il contenuto dell’accordo stipulato con altri stati o di non modificare la legislazione vigente in un senso contrario a quegli stessi obblighi), allo stesso modo non può farlo il corpo elettorale mediante un referendum abrogativo.

 Detto questo, il punto più insidioso nella giurisprudenza riguarda il rapporto tra la legislazione interna e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato che possono interessare indirettamente quella legislazione. Qui la casistica è molto oscura e le opinioni diverse. L’interpretazione dovrebbe essere orientata dal criterio generale che ho appena formulato e, in ogni caso, l’orientamento da seguire quello che valuta in senso stretto la responsabilità dello Stato. Insomma, a partire dalla lettera dell’art. 75 Cost. e della sua ratio, il criterio guida generale (e quello particolare, con riferimento agli obblighi internazionali ed europei) dovrebbe essere il favor referendario. Nel nostro caso, non pare venissero in rilievo obblighi internazionali di questo tipo, e la Corte ha fatto bene a non tenerne conto ai fine del decidere.

 

C. Scognamiglio. Per rispondere alla domanda ritengo utile ricordare, in primo luogo, che il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, Cost., attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario, sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione, quali omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria. Come ha sottolineato la Corte Costituzionale (richiamo, in particolare, Corte Cost. n. 50/2022), la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. In questa prospettiva, sono reputati irrilevanti, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum, i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti.

Applicando tali criteri al referendum oggetto del presente confronto, condivido la valutazione della Corte. Il quesito rispetta i requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità; appare, infatti, evidente il concreto effetto dell’eventuale abrogazione.                                 

 

V. A. Poso. L’approvazione della richiesta referendaria genera «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?

La Corte Costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della normativa risalente nel tempo, che affermava una responsabilità solidale estesa anche al committente. E mi sembra, questa, una affermazione del tutto condivisibile, anche in base a quanto avete riferito sulla disciplina generale della materia oggetto di referendum e sul precedente assetto normativo.                                   

 

A. Morrone. Come ho cercato di argomentare, la manipolazione è contenuta entro i confini di una creatività limitata al ripristino di una norma già vigente, che la disciplina sottoposta a referendum popolare vuole eliminare. Col risultato di “ripristinare” la disciplina precedente. Richiamo, in proposito, quanto ho già risposto in precedenza.

 

 

V. A. Poso. L’estensione della responsabilità solidale del committente rafforza indubbiamente la tutela dei lavoratori sul piano risarcitorio; non è detto, però, che altrettanto avvenga sul piano della tutela antinfortunistica. Senza contare le possibili ripercussioni sul piano economico dei costi nelle catene degli appalti e della convenienza dell’imprenditore a esternalizzare i cicli produttivi. Nel complesso la ritenete una soluzione positiva?

 

C. Scognamiglio. La soluzione potrebbe, per certi versi, ritenersi, positiva, ma certo non determinante nell’ottica della tutela antinfortunistica. In ogni caso, secondo quanto ho già ricordato, e come del resto osserva anche la domanda, non vanno trascurati, in una valutazione complessiva, anche i corollari in termini di maggiori costi ed oneri organizzativi/informativi a carico del committente.

 

P. Tullini. La responsabilità solidale del Committente per i danni sopportati dai lavoratori nelle catene di appalto è diretta, in primo luogo, a rafforzare la tutela risarcitoria che potrebbe essere vanificata dalla debolezza economica o dalla scarsa affidabilità delle imprese affidatarie. Tuttavia, la finalità principale della garanzia riguarda proprio la prevenzione dei rischi lavorativi.

Come purtroppo emerge dai dati infortunistici, i processi di esternalizzazione produttiva soffrono di una scarsa attenzione e, ancor più, della mancanza del necessario controllo sulle modalità organizzativo-esecutive delle prestazioni di lavoro. Il sistema prevenzionistico e quello risarcitorio, se fortemente integrati e univoci, possono rispondere ad un obiettivo comune, scolpito nell’art. 41, comma 2, Cost.

Né vanno trascurati i riflessi sul versante della trasparenza del mercato e della definizione di corretti business models da parte delle imprese committenti. È facile intuire che, per scongiurare l’alea di una responsabilità solidale per danni, i Committenti sarebbero indotti ad una più attenta selezione delle imprese affidatarie e ad una seria verifica preventiva della loro idoneità tecnico-professionale, come del resto prescrive l’art. 26, comma 1, T.U. 2008.

Non ci si nasconde il fatto che, di solito, la scelta imprenditoriale dell’esternalizzazione persegue utilità tanto sul piano della flessibilità del lavoro quanto su quello della specializzazione produttiva, ma è compito del diritto del lavoro impedire che si ottengano illeciti vantaggi sotto il profilo del risparmio dei costi del lavoro e del sacrificio della salute e della sicurezza delle persone che lavorano.

                                                                       

A. Morrone. Come ho detto fin dalla prima risposta, il fatto è che, in questa materia, siamo nel cuore della politica legislativa. Ritenere che dalla Costituzione discendano degli obblighi costituzionali, una sorta di contenuto costituzionalmente vincolato, equivale a fare del costruttivismo interpretativo inammissibile. La Costituzione non contiene una risposta per ogni problema politico. Fissa le traiettorie entro le quali il conflitto politico-sociale deve svolgersi legittimamente, in senso pluralistico e democratico. Sono le forze sociali, i partiti politici, le istituzioni repubblicane i soggetti deputati a realizzare i margini del disegno costituzionale.

Il quesito sugli infortuni offre una prospettiva e una risposta concreta. Una delle tante possibili, immagino, nella mens dei promotori, sulla base di considerazioni di politica del lavoro fondate su dati concreti e affidabili. Lo stesso referendum, non dobbiamo dimenticarlo, per non sopravvalutarlo oppure per non svalutarlo, è uno strumento di decisione politica. Serve per fare scegliere tra diverse (almeno due) possibilità. Gli elettori diranno la loro. Ma, ancora una volta, la decisione popolare che dovesse abrogare la disciplina vigente, estendendo la responsabilità solidale, non ha né il crisma della sua conformità a Costituzione, né, tantomeno, la sua effettività – intesa come corrispondenza concreta – sul piano dei rapporti industriali.

 Nella prospettiva della Costituzione e del referendum abrogativo, posso aggiungere che il valore di una decisione popolare diretta sta proprio nel fatto che il corpo elettorale decida, e che, di questa decisione, coloro che hanno responsabilità politico-istituzionale, debbano, in qualche modo, farsi carico. Nella logica della Costituzione, il processo politico non si ferma di fronte ad un referendum, ma riprende il suo corso incessante, in una fattiva collaborazione tra i soggetti della sovranità democratica della Repubblica. Il problema che emerge nella storia del referendum è che, invece, i centri di decisione democratica sono sempre stati visti come concorrenti o alternativi a quelli rappresentativi, con una tendenza emergente a nutrire una certa diffusa sfiducia, specie da parte della classe politica dominante, nei confronti delle espressioni referendarie popolari (anche qui a corrente alternata: basti pensare all’uso strumentale di alcuni referendum nella vita politica e legislativa del Paese).

 

V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, data la nettezza dell’alternativa proposta con il quesito referendario e considerati i tempi ristretti per il voto popolare, è certamente da escludere un intervento legislativo di contrasto dell’eventuale esito positivo del referendum.

 

C. Scognamiglio. Condivido questa tua osservazione.

 

A. Morrone. L’unico intervento che potrebbe “evitare” il referendum (nel senso di impedirne legittimamente la celebrazione) sarebbe una legislazione che recepisca in toto il “verso” della domanda popolare, ossia estenda la responsabilità nella misura indicata da essa. Ma non ci saranno leggi in proposito prima del voto. La sfida sta nel raggiungimento del quorum, il vero “nemico” di questo e di qualsiasi referendum abrogativo, vista la tendenza delle minoranze contrarie alla domanda a opporsi ad un pronunciamento popolare ricorrendo, illegittimamente, all’invito a disertare le urne. Ancora una volta, dunque, è contro l’astensionismo che si giocherà la vera sfida anche di questi referendum. Come dimostra il passato: dal 1997 ad oggi solo una volta, nel 2011, e par hazard, si è superato il quorum, e la dialettica democratica ha vinto contro il gioco sleale di chi preferisce impedirla anziché favorirla spingendo a votare gli elettori (sempre più disillusi e lontani dalla partecipazione politica).             



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