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PMI spaziali italiane: la nuova legge rischia di bloccarne il decollo


Il Disegno di Legge Spazio approvato dalla Camera dei Deputati lo scorso 6 marzo 2025 con 133 voti favorevoli e 89 contrari è stato presentato come una svolta epocale per l’Italia. Per la prima volta, il Paese si dota di una cornice normativa organica in grado di regolare le attività spaziali civili, dalla costruzione di satelliti fino al lancio di razzi e alla gestione delle infrastrutture in orbita.

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Un passo che sulla carta colma un vuoto normativo e mette ordine in un settore strategico, sino a oggi regolato da leggi frammentarie, direttive europee e accordi internazionali.

Eppure, dietro gli annunci trionfalistici, si cela un paradosso tutto italiano: una legge pensata per favorire l’espansione della space economy nazionale potrebbe rivelarsi un boomerang, specialmente per le piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura dell’ecosistema spaziale nostrano.


Obbligo assicurativo: una montagna che schiaccia le PMI

Il nodo più contestato della nuova normativa è l’articolo 21, che introduce un obbligo assicurativo universale per tutti gli operatori privati del comparto spaziale. La norma prevede che ogni soggetto debba stipulare una polizza assicurativa a copertura di eventuali danni a terzi, con un massimale fissato a 100 milioni di euro per episodio. Una soglia altissima, che supera di gran lunga le possibilità economiche delle PMI, soprattutto di quelle più giovani, innovative o focalizzate sulla sola ricerca.

Il testo legislativo prevede una parziale modulazione del requisito, grazie a decreti attuativi che dovrebbero permettere la classificazione delle attività in tre fasce di rischio. In questo modo, i massimali assicurativi potranno scendere a 50 milioni per alcune attività e, in casi specifici come startup innovative o progetti di ricerca, anche a 20 milioni. Ma anche in questi casi si tratta di cifre non realistiche per un tessuto imprenditoriale che opera spesso con budget limitati, margini risicati e forte dipendenza da fondi pubblici, bandi europei e collaborazioni accademiche.


Polizze inaccessibili e fuga dei capitali: il rischio di desertificazione industriale

Per le PMI italiane, questo impianto normativo rappresenta un ostacolo quasi insormontabile. Le compagnie assicurative, nel valutare i premi, non guardano solo al massimale ma anche alla novità dell’operatore, all’assenza di track record, alla complessità tecnologica del carico e al rischio di fallimento della missione. In pratica, una startup che vuole testare un payload sperimentale in orbita bassa potrebbe trovarsi a dover affrontare costi assicurativi di centinaia di migliaia di euro, se non milioni, ancora prima di aver lanciato il satellite.

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Questo tipo di barriera economica rischia di generare una fuga verso contesti normativi più favorevoli. Già oggi, alcune imprese italiane valutano di trasferire sede legale e attività operative all’estero, in Paesi come Lussemburgo, Regno Unito, Francia o persino Emirati Arabi Uniti, dove la regolamentazione è più flessibile e dove spesso esistono garanzie pubbliche a copertura del rischio residuo.

Autorizzazioni complesse e filiere decisionali farraginose rallentano l’innovazione

Il problema, però, non si ferma all’aspetto assicurativo. L’intero disegno di legge si caratterizza per un impianto burocratico a tratti ridondante, che rischia di vanificare i benefici dell’intervento legislativo. L’autorizzazione alle attività spaziali è affidata a un sistema multipolare che coinvolge la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), il Comitato Interministeriale per le Politiche Spaziali (COMINT) e altri enti tecnici e amministrativi. Un modello complesso, lungo e che alcuni osservatori hanno già definito, a torto o a ragione, come potenzialmente opaco. Comunque sia, vi sono timori diffusi che è opportuno quantomeno citare.

Al contrario, in Paesi come gli Stati Uniti, l’autorizzazione ai lanci è gestita da un unico soggetto: la Federal Aviation Administration (FAA), attraverso il suo Office of Commercial Space Transportation. Il sistema statunitense è snello, centralizzato e in grado di fornire risposte in tempi rapidi, elemento decisivo per attrarre investimenti, startup e fondi di venture capital.

In questa sede non si vuole negare l’opportunità di un intervento legislativo volto a migliorare la gestione dei numerosi rischi connessi alle attività spaziali, che è invero auspicabile e più che benvenuto, bensì evidenziare alcune rigidità che l’attuale nuova norma incorpora e che potrebbero minare l’applicabilità e l’efficacia della soluzione ideata per il contesto industriale cui si rivolge. Al contempo, il contributo si pone l’obiettivo, verosimilmente ambizioso ma legittimo nel proposito, di invitare organismi e persone preposte alla legiferazione, a considerare eventuali spazi di perfezionabilità nell’impianto ideato.


Il confronto coi modelli esteri: tra garanzie pubbliche e flessibilità

Il confronto internazionale mette in luce quanto l’Italia debba ancora fare per diventare davvero competitiva nella nuova corsa allo spazio. Negli Stati Uniti, il massimale assicurativo non è imposto per legge ma calcolato caso per caso in base al cosiddetto Maximum Probable Loss, mentre per i danni oltre quella soglia interviene lo Stato con una garanzia pubblica fino a 1,5 miliardi di dollari.

In Francia, il tetto è compreso tra i 50 e i 70 milioni di euro, con esenzioni per periodi in cui i satelliti non cambiano orbita. In Australia, l’obbligo è di 750 milioni di dollari australiani, ma con una garanzia statale che può coprire fino a 3 miliardi. Anche il Regno Unito ha previsto una modulazione dinamica dei massimali, unita a una forte interazione tra enti pubblici e imprese private.

Tutti questi Paesi condividono un punto fondamentale: la flessibilità normativa e l’intervento dello Stato come assicuratore di ultima istanza in caso di eventi catastrofici. In Italia, invece, la legge non prevede al momento nessuna garanzia pubblica, lasciando le imprese esposte a rischi potenzialmente devastanti.


L’allarme degli operatori: servono meno vincoli e più sostegno

Le critiche da parte degli operatori del settore non si sono fatte attendere. Start-up e PMI del settore spaziale denunciano l’insostenibilità dei nuovi obblighi e il rischio concreto che la legge favorisca solo i grandi player internazionali in grado di sostenere costi e complessità burocratiche.

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Tra le voci più autorevoli, l’ex presidente dell’ASI Roberto Battiston ha sottolineato come la rigidità normativa italiana possa costituire un freno per l’intero ecosistema. “Una legge troppo rigida è il miglior modo per spingere le imprese italiane fuori dall’Italia”, ha dichiarato in una recente intervista.

Anche da ambienti parlamentari arrivano segnali di preoccupazione. L’opposizione ha accusato il governo di voler costruire una “space economy a misura di multinazionale”, penalizzando invece le aziende nazionali, spesso giovani, innovative e con grandi potenzialità di crescita. Un timore che potrebbe rivelarsi fondato.


Crescita globale, rischio nazionale

Nel 2023, il valore della space economy globale ha toccato i 570 miliardi di dollari, con previsioni di ulteriore crescita nei prossimi anni. L’Italia vanta eccellenze in numerosi segmenti della filiera: dalla manifattura aerospaziale alla propulsione, fino all’osservazione della Terra e alle telecomunicazioni. Partecipiamo da protagonisti ai grandi programmi europei come Galileo, Copernicus ed ExoMars. Ma senza un impianto normativo agile e competitivo, rischiamo di perdere terreno proprio quando il mercato sta esplodendo.


Semplificare, garantire, abilitare: le tre parole chiave per rilanciare la legge

La speranza è che l’esame al Senato diventi occasione per una revisione profonda della legge. Occorre semplificare, tagliando burocrazia inutile e iter autorizzativi farraginosi. Serve garantire, introducendo una forma di copertura statale per i danni eccedenti. E infine, è necessario abilitare, ascoltando la voce degli operatori, prevedendo meccanismi di incentivo e modulando gli obblighi sulla base della reale capacità delle imprese.

Non si tratta solo di una questione tecnica. La space economy è una leva di crescita, innovazione e sovranità tecnologica. Una legge opportuna che ha obliato la considerazione di aspetti fondamentali del contesto cui si rivolge rischia di provocare danni enormi: scoraggiare investimenti, disperdere talenti, affossare startup e, da ultimo, compromettere la competitività di un’intera nazione.


Il rischio di zavorrare la nuova corsa allo spazio

L’Italia ha bisogno di una legge spaziale, ma non di una legge che potenzialmente ingessi, paralizzi, ostacoli. Il disegno di legge così com’è rischia di trasformarsi in una pista di lancio che non porta nello spazio, ma dritta contro una barriera di burocrazia e costi insostenibili.

La sfida non è solo normativa, ma culturale. Occorre passare da una logica di controllo a una logica di abilitazione, da una visione centrata sul pubblico a un modello che valorizzi le energie private. Solo così l’Italia potrà occupare il posto che merita nella nuova era dello spazio. Prima che sia troppo tardi.

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