Carta di credito con fido

Procedura celere

 

Trump in Medio Oriente, Israele alla finestra?


Donald Trump è in partenza per la regione del Golfo persico per il primo tour all’estero dall’inizio del suo secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti. Il viaggio — che toccherà Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar — ricalca quello del 2017, quando Trump fu accolto come un leader pragmatico, futuro realizzatore degli Accordi di Abramo e in contatto con le priorità economiche e strategiche delle monarchie del Golfo. Anche stavolta gli incontri si concentreranno su temi strategici, economici e di difesa, ma con un obiettivo centrale: tornare negli Stati Uniti con nuovi accordi miliardari da esibire come prova che “America First” è più che uno slogan. Trump ha già annunciato l’impegno dell’Arabia Saudita a investire mille miliardi di dollari nell’economia statunitense e punta a ottenere altri capitali dai partner regionali. Per i Paesi del Golfo, però, il viaggio — che avviene in un contesto profondamente segnato dal conflitto a Gaza — presenta una posta in gioco doppia: da un lato c’è il rischio reputazionale di apparire complici, alla vigilia di una nuova offensiva militare israeliana sulla Striscia; dall’altro, la speranza di esercitare un ascendente su un presidente che tende a lasciarsi influenzare dai suoi interlocutori. Forti del peso finanziario, del controllo sul mercato energetico e del ruolo strategico nella regione, i paesi del Golfo puntano a orientare le scelte della Casa Bianca nella regione.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Guerra vs business?

Spicca, nel viaggio di Trump in Medio Oriente, l’assenza di una tappa in Israele, dove Benjamin Netanyahu e il suo gabinetto di guerra hanno minacciato di lanciare un’invasione più ampia di Gaza occupando militarmente la Striscia ed espellendo la popolazione palestinese in quello che l’ex alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell ha definito “un piano di pulizia etnica”. D’altra parte sembra che le relazioni tra Stati Uniti e Israele si stiano facendo sempre più tese, con Trump che finora ha declinato gli inviti a recarsi in Israele e ha spiazzato Netanyahu annunciando, senza preavviso, l’apertura di nuovi colloqui con Teheran sul programma nucleare. A definire il quadro, la settimana scorsa gli Stati Uniti hanno interrotto i raid aerei sullo Yemen, mentre Israele continua a colpire le postazioni dei ribelli Houthi. E proprio nelle ultime ore, annunciando il previsto rilascio dell’ostaggio israeliano-americano Edan Alexander, Trump ha esplicitamente collegato un accordo per porre fine a quella che ha definito “questa guerra brutale” al rilascio di tutti gli ostaggi. Inutile dire che le parole di Trump vanno prese con le pinze: come ampiamente dimostrato negli ultimi mesi, le sue posizioni sui dazi, sull’Ucraina e su altre questioni cambiano costantemente. Ma se si attiene all’appello a porre fine alla guerra, diventerà molto più difficile per Netanyahu portare avanti i propri progetti bellici, già profondamente impopolari in Israele. 

Leader arabi puntano al dialogo?

La prospettiva di una nuova campagna militare israeliana a Gaza, d’altronde, allarma molti leader arabi, non solo per ragioni umanitarie, ma anche per i rischi di destabilizzazione che un esodo massiccio di civili palestinesi comporterebbe per i paesi vicini. Se da un lato il Qatar teme di essere trasformato nel capro espiatorio di un eventuale fallimento dei negoziati tra Israele e Hamas, e dall’altro gli Emirati saranno chiamati a finanziare – ancora una volta – la ricostruzione di Gaza, tutti i governanti condividono la stessa preoccupazione: che una guerra senza fine alimenti la radicalizzazione delle piazze arabe, sotto le cui braci covano frustrazione e rancore. E il massacro in corso a Gaza da 18 mesi ha avuto un impatto devastante sulla percezione di Israele e degli Stati Uniti nell’opinione pubblica araba, spingendo le monarchie del Golfo ad alzare il prezzo per ogni ipotesi di accordo politico in stile ‘Abramo’. Sostenute dalla Turchia, le capitali del Golfo chiederanno perciò a Trump di limitare l’azione israeliana non solo nella Striscia ma anche in Libano e, soprattutto, in Siria, dove Tel Aviv ha messo in atto numerose incursioni e bombardato centinaia di siti da quando, lo scorso dicembre, il governo di Bashar al Assad è stato travolto dalle milizie armate. Tutti e sei i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo appoggiano un dialogo con l’attuale presidente ad interim siriano, Ahmed al-Sharaa, nella speranza di stabilizzare un paese dilaniato da oltre 13 anni di guerra civile e scongiurare un nuovo vuoto di potere nel cuore del Medio Oriente.

Do ut des?

In un contesto già estremamente fragile, Trump sa di non potersi permettere di ignorare le posizioni del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e degli altri leader del Golfo su Gaza, Siria e Yemen. Se intende assicurarsi il loro sostegno finanziario, dovrà concedergli qualcosa di concreto in cambio. Un’intesa sul nucleare iraniano, accompagnata dall’impegno a contenere Netanyahu e i fautori della linea dura contro Teheran, potrebbe offrire uno scenario alternativo: quello di un nuovo ordine regionale, costruito attorno alla diplomazia e non alla forza. Un vero accordo dovrebbe però poggiare su basi più ampie: un cessate il fuoco stabile a Gaza, un afflusso significativo di aiuti umanitari alla popolazione palestinese e l’avvio — almeno simbolico — di un percorso credibile verso la nascita di uno Stato palestinese. È uno scenario difficile da immaginare, dati il ​​personale, i processi politici e le preferenze di questa amministrazione. La politica estera di Trump, incentrata sugli accordi, dà priorità agli interessi immediati degli Stati Uniti rispetto ad alleanze e partnership a lungo termine. Ciò ha eroso la fiducia e la stabilità che il soft power americano un tempo garantiva. Umiliare gli alleati e forzare rinegoziazioni – come nel caso dell’Ucraina – ha indebolito il sistema di alleanze occidentali e in particolare la partnership transatlantica. In Medio Oriente, il rischio è che tutto questo si traduca in un’erosione della cooperazione regionale necessaria a contrastare l’estremismo violento e favorire la stabilità di una regione oggi come mai in bilico. 

Il commento

Di Ugo Tramballi, Senior Advisor ISPI

Conto e carta

difficile da pignorare

 

“Dopo Canada, europei, giapponesi e australiani, potrebbe essere Israele il prossimo alleato vittima dell’inusuale politica estera di Donald Trump. Gli Usa trattano con l’Iran quando Netanyahu voleva bombardare; l’israeliano allarga la guerra a Gaza mentre gli americani trattano con Hamas una tregua e la liberazione di un ostaggio. Ora Trump parte per il Golfo e l’agenda prevede 100 miliardi di dollari di armi americane ai sauditi e 1000 di investimenti arabi in America (oltre a una Trump Tower a Dubai e un golf club a Doha). La guerra senza fine a Gaza e le ambizioni annessioniste israeliane sono diventate un pericoloso ostacolo per la nuova politica estera americana, fondata sul business”.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese