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Crisi di produttività in Italia: l’AI non salverà chi non vuole cambiare


 

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  • La produttività industriale italiana è stagnante da oltre 20 anni, con incrementi quasi nulli e performance peggiori rispetto ai principali paesi europei.
  • Le cause principali sono strutturali: imprese troppo piccole, scarsi investimenti in tecnologia, bassa digitalizzazione e deficit di competenze.
  • Le aziende italiane, soprattutto le PMI, hanno spesso rinunciato a investire, rallentando l’adozione di innovazioni in grado di migliorare l’efficienza.
  • L’intelligenza artificiale rappresenta oggi una leva strategica, ma richiede cultura del dato, competenze, volontà e investimenti per essere efficace.
  • La proposta di Axiante mette al centro integrazione, qualità dei dati e supporto continuo, per trasformare l’AI in un motore reale di produttività.

La produttività industriale italiana è quasi ferma da oltre vent’anni. Secondo Romeo Scaccabarozzi, dirigente di Axiante, è una paralisi che rischia di costare al Paese la permanenza nel gruppo delle economie industriali avanzate. «Nel resto del mondo la produttività correva, in Italia camminava come una lumaca con una lavatrice sulle spalle», ha detto di recente. Secondo lui, l’intelligenza artificiale è forse l’ultima possibilità concreta per invertire la rotta.

Questo intervento fotografa una realtà ampiamente documentata: l’Italia affronta da oltre due decenni una marcata stagnazione della sua produttività industriale. Si tratta di un problema con radici profonde che frena la crescita economica complessiva del Paese, incide sulla competitività internazionale delle sue aziende e sul benessere dei cittadini, limitando la crescita dei salari e mettendo sotto pressione la finanza pubblica. Comprendere le dinamiche, le cause e i possibili rimedi è quindi una priorità non più procrastinabile.

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L’Italia è meno produttiva

Con “produttività” si intende principalmente la produttività del lavoro, ovvero l’efficienza con cui le ore lavorate si traducono in prodotto. Si misura solitamente come valore aggiunto per ora lavorata: più alto è questo valore, più un sistema è produttivo. Un’elevata produttività significa che un Paese o un’azienda riescono a generare maggiore ricchezza e beni/servizi con la stessa quantità di lavoro, o la stessa ricchezza con meno lavoro. Questo è cruciale per la crescita economica, la competitività sui mercati internazionali e, in ultima analisi, per il benessere generale e i salari.

Non è un calcolo facilissimo, perché dipende da una raccolta dati che – almeno nel nostro Paese – non è mai particolarmente precisa. Tuttavia è un parametro abbastanza indicativo e utile per confrontare diverse aree geografiche. Nel momento in cui la produzione viene resa più efficiente da una qualche innovazione tecnica il valore aggiunto aumenta, perché appunto per ogni ora lavorata si riesce a fare di più. 

La produttività italiana è ferma da due decenni, zavorrata da nodi strutturali e scarsa propensione all’investimento delle imprese, specie PMI

L’andamento della produttività del lavoro nell’industria italiana, misurata come valore aggiunto per ora lavorata, è stato particolarmente deludente, soprattutto se confrontato con i principali partner europei. Secondo le statistiche sulla produttività elaborate da Eurostat, dal 2005 al 2025 l’Italia ha registrato incrementi minimi, con una crescita media annua prossima allo zero fin dalla fine degli anni ’90. 

Tra il 2000 e il 2016, ad esempio, l’aumento cumulato della produttività in Italia è stato inferiore all’1%, un dato che impallidisce di fronte al +18,6% della Germania, al +13,5% della Francia e al +15,3% della Spagna. Questa “patologia della stagnazione produttiva” ha fatto sì che, nonostante un leggero riavvicinamento ai tassi di crescita di Germania e Francia prima della pandemia (dovuto più a un rallentamento altrui che a un recupero italiano), il divario accumulato sia rimasto sostanzialmente invariato. 

Anzi, l’Italia si è spesso trovata in coda: nel periodo 2007-2017, la produttività media annua italiana è addirittura diminuita dello 0,6%, e anche nel 2024, secondo dati preliminari, il nostro Paese è stato l’unico tra le grandi economie europee, insieme al Regno Unito, a mostrare una variazione oraria negativa (-1,4%). È importante sottolineare che parte dei pochi aumenti di produttività registrati in Italia sono derivati da effetti ciclici, come la chiusura di imprese meno efficienti durante le crisi economiche, piuttosto che da miglioramenti strutturali organici.

Le cause di questa cronica debolezza sono molteplici e interconnesse, e chiamano in causa diversi attori, incluse le imprese stesse.

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Un primo fattore critico è il basso livello di investimenti, sia pubblici in infrastrutture (materiali e digitali) sia, soprattutto, privati. La spesa italiana in Ricerca e Sviluppo si attesta su livelli (dati OCSE) significativamente inferiori rispetto ai competitor europei, con una conseguente minore adozione di nuove tecnologie e processi innovativi.

Molte aziende italiane, in particolare le Piccole e Medie Imprese (PMI) che costituiscono l’ossatura del nostro tessuto produttivo, non hanno voluto o saputo investire con sufficiente decisione in ammodernamento tecnologico e organizzativo – proprio due dei pilastri che permettono di aumentare la produttività e restare competitivi.

L’Italia affronta da oltre due decenni una marcata stagnazione della sua produttività industriale

Spesso e volentieri non è una questione di volontà, perché un’azienda molto piccola semplicemente non dispone delle risorse necessarie per dotarsi degli strumenti più moderni; ma a volte c’è anche un problema di mentalità, di rifiuto dell’investimento a prescindere dai possibili risultati, di avversione al rischio. 

Di contro, se si osserva la performance delle aziende italiane di maggiori dimensioni, la situazione tende a essere diversa, suggerendo che la scala sia un fattore determinante. Questa ritrosia all’investimento da parte delle PMI, pur comprensibile in un contesto di incertezza e con risorse limitate, si è tradotta in una progressiva perdita di competitività.

Strettamente collegata è la lenta diffusione delle tecnologie digitali e dell’automazione avanzata. L’Italia sconta un ritardo significativo nella digitalizzazione dei processi produttivi e nell’adozione di strumenti gestionali evoluti, come evidenziato periodicamente dall’Indice DESI della Commissione Europea e dal profilo specifico per l’Italia. Anche in questo caso, la frammentazione del sistema produttivo in una miriade di micro e piccole imprese (oltre il 95% delle imprese manifatturiere ha meno di 10 addetti) ha rappresentato un ostacolo, con molte realtà che hanno faticato, anche per limiti manageriali e culturali, a cogliere appieno le opportunità offerte dalla rivoluzione informatica prima e da quella digitale poi. 

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Lo studio “Diagnosing the Italian Disease“, di qualche anno fa, mette in luce come l’incapacità di un management spesso poco incline al cambiamento e non selezionato su basi puramente meritocratiche abbia impedito di trarre vantaggio dalla diffusione dell’ICT.

Un altro fattore penalizzante è il capitale umano. L’Italia presenta tassi di laureati inferiori alla media europea e un deficit nelle competenze tecnico-scientifiche e digitali. La formazione continua all’interno delle aziende è meno diffusa rispetto ad altri Paesi, e ciò riduce la capacità di adottare e gestire efficacemente tecnologie e processi produttivi più avanzati.

A ciò si aggiunge una specializzazione produttiva ancora troppo concentrata su settori tradizionali, a minor valore aggiunto e più esposti alla concorrenza internazionale basata sui costi, piuttosto che su settori high-tech che altrove hanno trainato i guadagni di produttività. Questa tendenza era stata analizzata anche da studi della Banca d’Italia sul modello di specializzazione italiano.

Infine, non si possono ignorare le inefficienze del contesto istituzionale: una burocrazia spesso farraginosa, la lentezza della giustizia civile, un sistema fiscale complesso e un’incerta cornice regolatoria rappresentano zavorre che scoraggiano gli investimenti, soprattutto quelli a lungo termine e più innovativi. A questo si somma una non sempre ottimale allocazione delle risorse finanziarie, con il sistema creditizio che in passato ha talvolta sostenuto imprese poco performanti a scapito di quelle più dinamiche, come evidenziato da analisi della Banca d’Italia sulla produttività e da ricercatori come Filippo Di Mauro per la BCE. Anche l’Autorità AGCM nelle sue relazioni annuali ha spesso sottolineato come carenze concorrenziali in alcuni mercati frenino l’efficienza.

L’Italia ha registrato incrementi minimi, con una crescita media annua prossima allo zero fin dalla fine degli anni ‘90

Il confronto con le politiche attuate da altri Paesi europei evidenzia approcci diversi. La Germania ha combinato riforme del mercato del lavoro (le cosiddette riforme Hartz), con un massiccio e costante sostegno all’innovazione industriale, un forte sistema di formazione duale e l’iniziativa strategica Industrie 4.0, supportata da una stretta collaborazione tra industria, ricerca (con il ruolo di istituti come Fraunhofer) e finanza agevolata tramite enti come la KfW, che pubblica regolarmente analisi sull’innovazione). La Francia ha puntato su un mix di dirigismo statale in settori strategici, un generoso credito d’imposta per la ricerca (CIR), il piano Industrie du Futur (che include esempi di trasformazione digitale nelle PMI), e più recenti riforme per la flessibilità del lavoro. Il piano France 2030 intende ora accelerare su settori come IA e semiconduttori. La Spagna, dopo la crisi, ha implementato significative riforme del mercato del lavoro nel 2012 (parzialmente riviste con il decreto del 2021 per promuovere la stabilità) e ha investito in infrastrutture e digitalizzazione, anche attraverso la roadmap España Digital 2025.

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L’Italia, pur avendo introdotto il Piano Industria 4.0 (poi Transizione 4.0) e ora potendo contare sulle risorse del PNRR, è difficile ravvisare iniziative comparabili a quelle dei nostri vicini. Certamente, non è detto che se lo Stato si impegna poi le aziende fanno lo stesso, ma una spinta più decisa forse avrebbe fatto la differenza. Il risultato ora è che abbiamo moltissimo terreno da recuperare. 

L’occasione dell’intelligenza artificiale

Come già la rivoluzione ICT vent’anno fa, oggi l’Intelligenza Artificiale (AI) emerge come una tecnologia potenzialmente trasformativa, capace di offrire nuove leve per migliorare l’efficienza, ottimizzare i processi, creare nuovi prodotti e servizi a maggior valore aggiunto e, in definitiva, rilanciare la produttività. 

L’AI non è una panacea, ma rappresenta un’opportunità concreta per le aziende italiane di fare quel salto di qualità che finora è mancato. Può aiutare a superare alcuni dei limiti dimensionali delle PMI, fornendo strumenti di analisi e automazione prima appannaggio solo di grandi gruppi. La sua applicazione spazia dalla manutenzione predittiva dei macchinari all’ottimizzazione della supply chain, dal controllo qualità automatizzato alla personalizzazione dell’offerta, fino al supporto alle decisioni strategiche. L’Unione Europea stessa sta investendo in questa direzione attraverso programmi come il Digital Europe Programme, e anche la Germania ha una sua strategia nazionale sull’IA.

La proposta di Axiante

È in questo contesto che si inserisce il monito e il suggerimento di Romeo Scaccabarozzi, dirigente di Axiante. 

Nel panorama delle imprese italiane, Axiante si presenta come un Business Innovation Integrator, impegnata a supportare le aziende non solo nell’adozione tecnologica, ma anche nella trasformazione organizzativa necessaria per trarre valore dall’intelligenza artificiale. Secondo quanto illustrato da Romeo Scaccabarozzi durante una recente conferenza, la visione di Axiante parte da un assunto chiave: l’AI non è uno strumento da aggiungere al catalogo, ma una “collega virtuale” che deve essere pienamente integrata nei processi, capace di affiancare le persone nell’aumentare la produttività senza sostituirle. L’obiettivo non è la riduzione dei costi, ma la ricostruzione del valore attraverso l’efficienza, con un impatto positivo anche sul salario e sulla qualità del lavoro. Le tecnologie AI, in questa ottica, devono essere viste come una leva per rispondere a un problema sistemico: la crisi di produttività che l’Italia vive da due decenni.

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Per farlo, Axiante propone un approccio concreto e misurabile, che parte da un’analisi della disponibilità e qualità dei dati aziendali, per poi passare alla progettazione e all’implementazione di modelli predittivi, soluzioni di customer intelligence e tecnologie basate su dati sintetici. Questi ultimi rappresentano una delle aree di investimento strategico della società, come confermato dal Global Demand Manager Mirko Gubian. I dati sintetici — generati tramite tecniche come GAN, VAE o simulatori statistici — permettono di addestrare modelli AI anche in assenza di dataset reali completi, rispettando al contempo i vincoli di privacy e contenendo i costi. In molti casi, questo consente alle aziende italiane di superare una delle barriere più comuni all’adozione dell’AI: la mancanza di dati utilizzabili. Axiante affianca i clienti lungo tutto il ciclo di vita del progetto, dalla fase di assessment iniziale al deployment operativo, garantendo anche la gestione del change management e l’integrazione con i sistemi esistenti.

La visione che traspare dalle parole del suo dirigente è che l’AI possa essere uno strumento cruciale per sbloccare la produttività italiana, a patto che le imprese, a partire dalle PMI, decidano di investire seriamente in questa direzione. Axiante, come altre aziende del settore, si posiziona quindi come un partner per aiutare le imprese a comprendere e implementare queste nuove tecnologie, adattandole alle specifiche esigenze di business.

Per le imprese italiane, soprattutto le PMI, non è più tempo di rimandare investimenti e azioni decisive per il proprio futuro. La competitività sui mercati globali, sempre più agguerriti e tecnologicamente avanzati, non attende. Se la piccola dimensione rappresenta un ostacolo oggettivo all’adozione di tecnologie complesse e a investimenti significativi, allora è forse giunto il momento di considerare con coraggio anche percorsi “tabù”, incluse fusioni e acquisizioni, per creare realtà più solide, con maggiori risorse finanziarie e manageriali da dedicare all’innovazione. L’alternativa è un lento ma inesorabile declino.

L’adozione dell’AI e di altre tecnologie digitali richiede non solo capitali, ma anche un cambiamento culturale profondo: una maggiore apertura all’innovazione, una gestione aziendale più moderna e meritocratica, e una forte attenzione alla formazione e riqualificazione delle competenze. Il successo dell’AI in Italia dipenderà dalla capacità del sistema nel suo complesso – imprese, istituzioni, mondo dell’istruzione e della ricerca – di creare un ecosistema favorevole. Le risorse del PNRR possono dare un impulso importante, ma spetta principalmente alle aziende cogliere la sfida, investendo con lungimiranza per non perdere quella che potrebbe essere davvero un’ultima, importante occasione di rilancio. 

Il futuro dell’economia italiana dipende da una scelta semplice ma urgente: restare fermi o decidere finalmente di crescere.



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